Nam June Paik. Un profilo

PARI&DISPARYAGENCY

Nam June Paik – che aveva studiato composizione musicale e storia dell’arte all’università di Tokyo– nel 1956 si reca in Germania, dove, due anni dopo, incontra John Cage, l’artista che lo convince a diventare con lui l’apostolo del “caso”, messaggero dell’anti-musica.La prima esposizione di Paik, Music-Electronic Television, avvenuta nel 1963, alla Galleria Parnass, a Wuppertal, consisteva in un’installazione con 13 video-monitor, messi a caso, che riempivano lo spazio con l’emissione di immagini ferme interagenti con gli spettatori.
Da questo primo passo nascono una miriade di idee e invenzioni, che per ben 40 anni hanno avuto un ruolo fondamentale nell’introduzione – accettata quasi subito – delle immagini elettroniche in movimento nel mondo dell’arte. In breve Paik diventa un “genio” dei media per la sua straordinaria capacità di proporre forme-immagini, ottenute con mezzi tecnologici, capaci però di coinvolgere tutti i sensi, di mettere in scena un movimento proteiforme di un’apertura infinita, un gioco complesso che coinvolge inevitabilmente anche l’interprete.
In Germania Paik, oltre a Joseph Beuys e Cage, incontra anche George Maciunas, il fondatore di Fluxus, il quale, nel 1964, lo introduce nel mondo artistico newyorkese, che viveva il momento magico degli “happenings” e della nascita dei film d’artista, come quelli di Jonas Mekas. Paik entra a far parte del mondo Fluxus, un gruppo ondeggiante di artisti – Allan Kaprov, Wolf Vostell, Yoko Ono, Dick Higgins, George Brecht, Joe Jones, Geoffrey Hendricks, Philip Corner, Robert Filliou, Alison Knowles, Ben Vautier, gli italiani: Giuseppe Chiari, Sylvano Bussotti, Gian Emilio Simonetti, e poi La Monte Young, Henry Flynt, ed altri – che avevano individuato nei mass media la parte più negativa della cultura del tempo. Questi artefici cercavano l’interdisciplinarità totale dei mezzi da usare, e privilegiavano il processo creativo piuttosto che l’oggetto finale, e l’assolutà precarietà dell’opera. Ma più che opere vere e proprie gli artisti Fluxus preferivano dare vita ad “azioni” – che rifuggivano ogni dogmatismo, o l’adesione a un “bello” stereotipo – documentate da riprese in video, foto, dischi, partiture musicali, e documenti di vario genere. Nel 1964 entra a far parte di Fluxus, soprattutto per volere di Paik, l’americana Charlotte Moorman, diplomata in violoncello classico alla Julliard, solista dell’American Symphony Orchestra, diretta da Leopold Stokowski.
Essa diventa fulmineamente una delle protagoniste più originali della scena sperimentale newyorkese degli anni Sessanta e Settanta. Donna di aspetto affascinante, occhi blu screziati di verde, una grande massa di capelli castano dorati, il sorriso radioso, è stata definita da Edgar Varèse “la Giovanna d’Arco della nuova musica”, infatti, nel 1963, ha fondato il New York Avant Garde Festival, che si è svolto annualmente fino al 1982.
La collaborazione con Paik ha avuto momenti molto emotivi e intensi per alcuni anni, ma in verità la loro collaborazione è durata ben 30 anni; con lui la Moorman partecipa a una serie di importanti “happenings”, tra cui Opera Sextronique (1967) in cui Paik, il quale pensava che la sessualità fosse una componente importante dei media, ha convinto la musicista a mettere due piccoli televisori sul seno nudo, mentre suonava un “violoncello” composto da tre monitor, che disegnavano un corpo femminile. Si è creato così un clima erotico e dissacrante, che ha scandalizzato il pubblico, e alla Moorman è costato un arresto, e il soprannome di “la violoncellista in topless”. Un altro evento sorprendente, assurdo, è stato quello di voler costruire un duetto con il robot K-456 di Paik, insieme al quale ha suonato PLUS-MINUS di Stockhausen. I due artisti insieme hanno formato un dinamico “duo” del multimediale, che ha viaggiato per tutto il mondo. In Italia, nel 1966, alla Biennale di Venezia, essi hanno presentato il Venice Gondola Happening, portando una piccola orchestra su una gondola, che inquadrata da una luce intensa e teatrale passava romanticamente tra i canali della città lagunare col suo carico di giocosi turisti-performer. Molte comunque sono le opere – in mostra quelle della Moorman sono rappresentate soprattutto da una serie di violoncelli di varie tipologie – talora a quattro mani – che sono nate dalla loro collaborazione (di un importante gruppo di foto di Paik, che documentano varie performances della Moorman, viene dato conto nel testo, in catalogo, di Denis Curti), poi sono state magari trasformate in video, come mostravano i 30 monitor sparsi in un groviglio di piante chiuse in una serra, il TV Garden (1974), dove tra folte felci comparivano molte immagini della Moorman. Lo stesso impegno che la Moorman ha messo nel suo gioco infinito di interpretazioni musicali e gestuali, è stato messo a segno anche da Paik nella sua ossessiva esplorazione della televisione e del video, tanto da diventare, alla fine degli anni Sessanta, l’antesignano di una nuova generazione di artisti che cercavano di creare un discorso estetico fuori – e in antagonismo – dalla televisione e dalle immagini in movimento. Durante tutti gli anni ’70 e ’80 Paik ha lavorato come insegnante e attivista, supportando altri artisti, e studiando opportunità per cambiare le potenzialità del mezzo emergente del momento, ovvero la TV.
In questo periodo troviamo le collaborazioni fondamentali con Laurie Anderson, Joseph Beuys, David Bowie, Merce Cunningham, e i sempre verdi Cage e Moorman, con i quali ha creato una serie di installazioni che hanno cambiato radicalmente l’uso del video, ridefinendo in modo drastico questa pratica artistica. Paik evidentemente pensava che l’orizzonte percettivo di ogni essere vivente, e di ogni specie, fosse molto particolare e potesse intervenire sulla sua visione del mondo. Paik è perfettamente consapevole che la televisione tende a ridursi a “contenitore di visibilità”, “coscienze delegate”, oggetto espositore di capacità comunicative, orientatore del giudizio politico, ma soprattutto a grande procacciatore di danaro, mediante la pubblicità, danaro che alimenta questo “mezzo”, garantendone un’esistenza sempre più “vuota” – cioè sempre meno creativa e progettata culturalmente – dal punto di vista dei contenuti e dei messaggi, ma sempre più invadente e onnipotente nei confronti dell’opinione pubblica, della presenza visiva, della formazione del gusto e dei desideri, nonché del controllo dei costumi e dei consumi.
È sullo sfondo di questo scenario che possiamo, credo, capire l’intensa concentrazione, lo sforzo di introspezione e di controllo compiuti da Paik. Infatti nel suo lavoro egli ha saputo innanzitutto far convivere interessi umanistici e musicali, una filtrata e poetica cultura Zen, l’eredità delle avanguardie del Novecento, legando il tutto con una conoscenza perfetta della tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Attraverso un umorismo leggero e insieme irriverente, di sapore Neo-Dada, egli decostruisce il linguaggio del mezzo televisivo, indagando parallelamente i legami tra arte e cultura popolare, combinando una tradizione sciamanica e razionale con una magica capacità di sintesi, di astrazione, che lo hanno condotto verso la conoscenza profonda e consapevole dei mezzi informatici. Una conoscenza facilitata dalla sua pazienza orientale mai venuta meno. Per mettere in crisi le immagini televisive Paik usa le immagini in modo astratto in questo aiutato dalle sue conoscenze musicali – su schemi dove troviamo forme ritmiche, geometrie quantistiche particolari di natura, potenziati da esplosioni di luci e di colori, contenuti in tempi molto brevi, che ci costringono a ritrovare l’intensità dello sguardo, e talora ci fanno balenare innanzi la luminosa immediatezza di squarci di storia di questo nostro tormentato XX secolo.
Se osserviamo le installazioni video – “Cavallo antico e 6 direttori d’orchestra” – ci rendiamo conto che Paik, collezionando tanti oggetti ormai fuori del contesto storico (vecchie radio, carcasse di televisori, e opere di un antiquariato minore) crea ibridazioni che complicano la nostra “tradizione” visiva, e salvano qualcosa dalla tirannide dell’utilità e dal consumo, creando infine un’enorme, infinita, collezione che ormai vive, frammentata, per il mondo. [...] L’immagine – video – in un’opera come “Colosseum” in cui coesistono frammenti di sculture romane, immagini frattali, la foto di Beuys, di architetture e neon – intrattiene un rapporto stretto, certo “costitutivo”, con quanto è scarto, maceria, residuo, legato alla wunderkammern del nostro sempre più carnevalesco presente. L’unione di reale e virtuale – la realtà che ospita in sé il suo opposto, l’altro da sé, violando antiche leggi, ma creando anche distinzioni fondamentali come quella tra verità e immaginazione, presenza e assenza, interno e esterno – vengono messi in questione (basta pensare anche a “TV Clock”). Queste opere spettacolari, ma anche tutti gli altri “robot” – “Robot giocatori di baseball” – mettono in scena la metamorfosi del “reale”, e attraverso l’incrinatura delle barriere concettuali che questo comporta, l’attenzione di chi guarda viene attratta con simpatia dalla fluidità, dall’apertura, dalla differenza, e ciò nondimeno l’affiorare del paradosso, e dell’ambiguità, non sono tanto l’indice di un ostacolo da superare, ma l’evidenziarsi di luoghi in cui è importante sostare. [...]
Le creature di Paik costruite con vecchie radio, orologi, televisori, telefoni, (per lui la vera grande scoperta del secolo), macchine fotografiche, antenne, vecchi mobili, sculture, biciclette, pezzi di macchine, sommati ad immagini, magari arricchiti di una concreta memoria pittorica che non vuole essere cancellata, non sono frutto di feticismi tecnologici, o idolatria della macchina, ma semplicemente l’artista, con grande ironia, ridisegna i “giocattoli” della sua infanzia, mette in discussione il valore del video o del televisore dicendo che annoiano e creano troppe immagini, ma contesta anche il neopaganesimo dei Terminator, proposti col volto ebete di Schwarzenegger. [...] Paik cerca un “fare” poetico che si offra nell’istantaneità della visione. Pensa l’arte in un’ottica che è quella della sua genesi e del suo essere costantemente in “fieri”, e non appunto un prodotto finito. In questo modo l’artista si approssima alla filosofia: la visione libera le forme del mondo dalla necessità della realtà, e prefigura così un mondo diverso da quello esistente.
E questo spiega anche, in parte, la presenza costante della figura del Buddha nelle video-sculture di Paik – pensiamo a “Yung Buddha on Duratrans bed”, “Buddha TV” – in cui l’autore ci dice che al culmine della meditazione ZEN “il mondo si da in quanto metafora di se stesso” e sul viso del Buddha compare un lieve sorriso, ma questo vuol essere allora il “sorriso del mondo”. L’illuminazione Zen è lasciar cadere ogni differenza sino a “percepire” la permanenza di un piacere, nonostante, o al di là, di ogni sofferenza.