La costruzione dell'identità nelle classi scolastiche: studenti "intelligenti" e "meno intelligenti" a confronto

Raffaele Alessandro Panza, Claudio Fasola

1. Che cos’è l’interazione in classe
Nell’ambito delle scienze sociali, lo studio dell’interazione in classe fa riferimento all’esistenza di  uno specifico sistema simbolico, la classe scolastica, definito da una particolare architettura di relazioni tra studenti ed insegnanti e tra studenti e studenti. Lo studio delle interazioni in classe si costituisce come un ambito di indagine relativamente recente ed innovativo, in riferimento ai più tradizionali temi affrontati dalla sociologia, dalla psicologia e dalla pedagogia all’interno del mondo dell’educazione .
Storicamente gli accademici interessati ai processi educativi, in particolare gli psicologi, hanno focalizzato le loro analisi su due aspetti. In primo luogo, a partire dagli anni cinquanta, è proliferato l’interesse per le modalità cognitive necessarie agli studenti per comprendere ed apprendere le nozioni impartite dagli insegnanti durante le lezioni. Si moltiplicarono studi e ricerche mirate a definire, in modo quantificabile ed oggettivo, i “meccanismi mentali” attraverso cui lo studente comprende ed assimila i concetti spiegati in classe. In particolare, gli psicologi tentarono di definire cosa fosse l’intelligenza, da cosa essa fosse determinata, se dall’ambiente in cui il bambino agiva, dal contesto in cui era cresciuto, dai suoi geni, ecc.
In secondo luogo, gli studiosi, con particolar riferimento ai pedagogisti, hanno esaminato le modalità educative adottate dagli insegnanti, cercando, sulle basi delle loro osservazioni, di costituire modalità di insegnamento più efficaci, soprattutto nei confronti di quegli studenti identificati come “meno intelligenti” rispetto una norma. Becker (1983) ha osservato come, secondo queste prospettive, educare voleva dire inserire informazioni e creare abilità nella testa dei bambini e delle persone ignoranti. Per fare ciò si avvertiva, in ambito scientifico, la necessità di costituire un sapere da un lato dedicato allo studio dell’apprendimento, dall’altro a quello dell’insegnamento.
Lo studio dell’interazione in classe si è sviluppato, e continua ad estendersi, in una direzione diametralmente opposta. Secondo Mehan (1979) il passato degli studi sull’educazione ha principalmente considerato le scuole come “scatole nere”. Ciò che interessava agli psicologi ed ai pedagogisti era fondamentalmente individuare le condizioni iniziali (potenzialità, abilità, intelligenza, ecc. degli studenti) e le condizioni di uscita, ovvero valutare se gli strumenti educativi adottati dagli insegnanti erano stati efficaci, tali da permettere l’acquisizione di nuovi concetti e lo sviluppo ed miglioramento delle abilità degli studenti. All’opposto gli studi interazionisti considerano la scuola come «un ambito di relazioni sociali che possiede proprie modalità d’interazione e di comunicazione» (Fele – Paoletti, 2003, p. 19). Le ricerche sull’interazione in classe si pongono epistemicamente in modo antitetico rispetto gli studi tradizionali, discostandosi da interpretazioni riduzionistiche.
Sostanzialmente le prospettive teoriche interazioniste in ambito educativo operano un taglio netto rispetto le teorie “personalistiche”. L’intelligenza, il deficit dello studente, le sue abilità od inefficienze, i comportamenti devianti in classe ed i risultati scolastici, non rappresentano più un punto di partenza. Essi piuttosto sono i “prodotti” delle continue interazioni che si svolgono all’interno delle scuole e delle classi, non le cause. Ciò che assume rilievo è lo studio di tutte le pratiche che costituiscono i fenomeni alle quali la psicologia, la sociologia e la pedagogia si sono storicamente dedicate.
Nell’ottica interazionista, lo studioso, più che un conoscitore delle tipologie di studenti, delle loro abilità o della capacità di insegnare dei professori, è un esperto della cultura della classe. Un primo riconoscimento dell’esistenza di una cultura della classe risale agli studi condotti da Becker (Becker et al., 1961), il quale ha parlato di “cultura studentesca” come dell’esistenza di una rete di rappresentazioni, comportamenti, doveri ed obblighi, coerenti tra di loro, rilevanti all’interno del contesto classe, dove l’individuo agisce come “studente”. Nella classe, argomenta Becker, ogni altra forma di cultura, familiare, parentale o amicale è subordinata alle condizioni culturali definite dall’essere studente. Corsaro (1985), nei suoi studi comparativi tra le scuole elementari negli Stati Uniti d’America e l’Italia, ha parlato di cultura della classe come «un insieme stabile di routine, artefatti, valori ed interessi che i bambini producono e condividono nella scuola» (Corsaro, 1985, p. 3).
Strettamente legato alla definizione di cultura della classe è l’idea di contesto “classe”: con esso «gli studi interazionisti intendono indicare sia gli aspetti fisico-architettonici degli spazi educativi, sia l’aspetto situazionale di ogni interazione educativa» (Fele – Paoletti, 2003, p. 47). Gli aspetti fisico-architettonici fanno riferimento alla conformazione fisica della classe: la distanza della cattedra dell’insegnante, la posizione e la dimensione della lavagna, l’orientamento di banchi e, più in generale, tutti gli aspetti scenici che costituiscono la ribalta ed il retroscena (Goffman, 1959) nei quali i comportamenti sociali di studenti ed insegnanti si organizzano . Gli aspetti situazionali, invece, costituiscono le differenti attività interattive tra studenti ed insegnanti, tra studenti e studenti, ognuna caratterizzata da un livello di adeguatezza rispetto le norme della classe.
Gli studi interazionisti e quelli etnometodologici nutrono una particolare attenzione verso le prospettive degli attori sociali. Tali prospettive non rappresentano dei “valori”, delle idealizzazioni da parte di studenti ed insegnanti. Essi piuttosto si delineano come rappresentazioni legate a particolari situazioni e costituite sulla base di specifici modelli culturali. L’insegnante e gli studenti sono portatori di prospettive diverse, ciascuno con i propri modi di pensare e di comportarsi ritenuti più o meno legittimi e coerenti rispetto al gruppo di riferimento. Ad esempio, l’atto di bullismo o disturbare lo svolgimento della lezione non sono atteggiamenti definibili considerando unicamente il singolo studente. Essi, piuttosto, possono rappresentare una modalità dell’individuo di presentarsi ai suoi pari, agendo con l’idea che comportarsi da studente ribelle, non succube del potere dell’insegnante, sia un requisito necessario per essere accettato dal proprio gruppo dei pari. In altre parole, più che un’azione fine a se stessa, essa rappresenta l’incarnazione di un punto di vista, la cui attuazione rappresenta il tentativo da parte dello studente di emergere agli occhi dei suoi coetanei. La reazione dell’insegnante nel tentativo di bloccare questo genere di comportamenti è il risultato della sua intenzione di ristabilire i canoni che descrivono, dal suo punto di vista, il modo con cui una classe deve essere condotta.
Assieme all’interazionismo simbolico (Salvini, 2004) e all’etnometodologia (Garfinkel, 1967), in questo studio è stata considerata la prospettiva adottata dai cosiddetti “teorici dell’etichettamento” (Becker et al., 1961; Lemert, 1967,). Questo approccio enfatizza le modalità costitutive attraverso cui il contesto etichetta, categorizza, classifica e definisce gli individui, attribuendone specifici ruoli e status. Partendo da questa prospettiva si può affermare che all’interno delle classi scolastiche ogni comportamento, deviante o normale, che risalta agli occhi della classe scolastica, non è tanto il risultato dell’azione prodotta dal singolo individuo, quanto il prodotto di una categorizzazione effettuata da uno o più osservatori, insegnante e/o studenti. La procedura di etichettamento non è una mera identificazione di una categoria da applicare ad un individuo. Essa è un vero e proprio atto di creazione e di continua negoziazione dell’identità di studenti ed insegnanti, in cui tutte le parti in gioco tendono a mantenere stabile tale realtà, promuovendo sinergicamente forme di comportamento volte alla conferma più che alla smentita di una certa etichetta attribuita all’individuo.  In tale prospettiva, l’identità dello studente più o meno intelligente, del bulletto o dell’insegnante severo non tratteggiano più caratteristiche dell’individuo. Esse sono personificazioni di un agire comune, filtrato attraverso etichette discorsive mutuamente negoziate.   
Tali assunti teorici rappresentano le basi su cui la ricerca è stata sviluppata. Il  lavoro è stato suddiviso in due parti con diversi obiettivi:

 


In questa sede si impiegherà il termine “educazione” nell’accezione utilizzata negli Stati Uniti d’America, per indicare la carriera scolastica percorsa dall’individuo, dalla scuola materna sino all’università.

Ribalta e retroscena all’interno delle classi sono categorie sfumate e spesso sovrapponibili. Si pensi, ad esempio, alla disposizione dei banchi “a file” tipica nelle scuole italiane. Tale disposizione rappresenta la ribalta in quanto è proprio mentre è seduto sui banchi che il ragazzo recita vestendo i panni dello studente. Tuttavia, le ultime file di banchi possono rappresentare anche il retroscena, configurandosi come vere e proprie nicchie all’interno delle quali lo studente, occultandosi dietro le spalle dei suoi compagni, può appisolarsi durante una lezione noiosa, un comportamento questo incongruente con la ribalta, poiché causerebbe la disapprovazione ed il rimprovero da parte dell’insegnante. 

Nel presente lavoro, le etichette di studente “intelligente” e “meno intelligente” non fanno riferimento ad alunni realmente intelligenti o stupidi, ma a figure sociali prodotte all’interno della classe, durante i continui processi di negoziazione dell’identità degli studenti.