La depressione come costruzione sociale

Maria Grazia Pugliese

4. Altri modelli interpretativi

Gli altri orientamenti hanno analizzato il fenomeno della depressione dandone differenti letture. Alcune di queste, seppur diverse tra loro, hanno in comune una concezione deterministica della natura umana, e una visione dell’uomo molto differente dallo “scienziato” kelliano.

Modello medico

Il modello medico fu esteso al campo della psicologia da Pinel, agli inizi del secolo scorso, con l’esplicita intenzione di trovare finalmente le cause originanti le malattie mentali. All’epoca la psichiatria, spiccatamente biologica, soffriva la scarsità di prove organiche, soprattutto a fronte dei progressi della medicina. Ha trovato terreno fertile nei processi psicologici teorizzati dalla nascente psicologia (La psicologia si occupava degli stessi fenomeni psichiatrici, producendo però teorie e modelli alternativi alle spiegazioni organiciste), e su questi, sebbene oggetti quantomeno inusuali per la tradizione empirista a cui la psichiatria apparteneva, ha innestato il proprio metodo e plasmandoli secondo il suo stampo e attraverso il suo linguaggio, quello medico appunto. Questo, se da un lato ha fornito nuove possibilità esplicative, dall’altro ha vincolato la psicologia a categorie proprie del modello medico.
Ciò significa che c’è stata una mutazione di categorie dall’ambito teorico medico a quello psicologico. Il trasferimento di conoscenze e riferimenti propri di un certo ambito disciplinare ad un altro porta però a ciò che Salvini ha definito uso spurio del concetto di modello, che conduce a mutuare da un ambito all’altro analogie linguistiche, concettuali e analogiche-strutturali, con il rischio di configurare una certa disciplina come dipendente da un’altra, o ad essere ad essa assimilata sulla base di una falsa analogia.
In tale trasferimento inoltre non si è considerato che mentre l’ambito medico può permettersi di operare ad un livello di realtà monista, nel senso che le affezioni di cui si occupa sono rilevabili mediante procedimenti empirici, il livello di realtà mentale è quantomeno ipotetico, e i suoi costrutti conoscitivi sono svincolati da tali procedimenti. La sola cosa accessibile ed oggettivabile era il comportamento, che divenne privilegiato oggetto concreto da sottoporre a studi. (In un certo senso si può dire fu persa l’occasione di considerare quello che più tardi divenne campo della psicosomatica, focalizzandosi di nuovo alla ricerca di cause squisitamente eziologiche.)

La prospettiva organicistica nell'indagine clinico-psichiatrica attualmente si muove lungo tre filoni ben definiti:
lo studio sul metabolismo cerebrale;
la ricerca neuro-fisiologica, impegnata nelle correlazioni tra struttura del sistema nervoso centrale e fenomeni psicologici;
la ricerca genetica che vuole dimostrare l'esistenza di una ereditarietà cromosomica.
L'organicismo in psichiatria ha privilegiato lo studio della malinconia nella sua forma di “psicosi endogena”, il che significa che, tale prospettiva, vede solo sul terreno biologico e fisiologico l'origine del fenomeno. I toni dell’umore (dalla depressione all’euforia) sono regolati da centri nervosi situati alla base del cervello. Tali centri sono molto sensibili alle più diverse stimolazioni, che possono essere esperienze di vita, fattori chimici, fisici o addirittura climatici.
Le ipotesi principali riguardo alla patogenesi dei disturbi depressivi postulano, come deficit fondamentale, una possibile destabilizzazione a carico dei sistemi neurotrasmettitoriali centrali, in particolare di serotonina, dopamina e noradrenalina. I neurotrasmettitori possono essere paragonati a dei “pony-express” che trasmettono le informazioni tra le cellule nervose (i neuroni). Sono rilasciati in uno spazio ristretto (sinapsi) da un neurone “mittente” che comunica con un neurone “ricevente”; il rilascio di questi neurotrasmettitori risulta diminuito nei pazienti depressi ma la causa è sconosciuta. Numerose osservazioni nell'ambito di ricerche di neurochimici e di psicofarmacologia hanno documentato alterazioni a carico dei sistemi monoaminergica centrali. Superata l'ipotesi che un semplice deficit neurotrasmettitoriale possa essere alla base della sintomatologia depressiva, l'attenzione è stata rivolta ai recettori dei diversi mediatori chimici della trasmissione nervosa centrale.
La depressione si accompagna anche ad una vasta gamma di disturbi neuroendocrini, con un’alterata funzionalità adenoapofisaria, che riflette alterazioni nelle interazioni tra fattori ipotalamici ed extraipotalamici, regolanti la funzione ipofisaria. La principale anomalia osservata risulta infatti a carico dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che risulta iperattiva e/o ipersensibile, anche se tali alterazioni rimangono da chiarire nel loro significato eziologico.
Altra caratteristica osservata del disturbo depressivo è la sua ricorrenza ciclica, per cui si è ipotizzato che nella sua eziologia sia coinvolta una alterazione dei cosiddetti “orologi biologici”.
I più comuni farmaci antidepressivi sono basati da circa trent’anni sullo stesso principio: l'obiettivo della terapia è quello di aumentare le concentrazioni di neurotrasmettitori all'interno della sinapsi, e per raggiungere tale scopo sono state sviluppate due strategie, una basata sul blocco dei meccanismi che li distruggono e l'altra sull'inibizione del processo di recupero della sostanza rilasciata da parte del neurone.
Gli antidepressivi sono perciò raggruppabili nelle seguenti classi di farmaci: IMAO, antidepressivi triciclici (TAD) e antidepressivi atipici o di seconda generazione.  Nonostante i progressi farmaceutici però, tutte le classi di farmaci funzionano al massimo nel 60-70% dei pazienti. Nei casi in cui sono efficaci, i primi benefici si iniziano a vedere dopo almeno due settimane, mentre per il massimo dell’effetto bisogna aspettare anche due mesi. Questo ritardo nell’inizio dell’azione terapeutica non ha ancora trovato una spiegazione soddisfacente, anche perché l’effetto sulle concentrazioni dei neurotrasmettitori è molto più veloce, e richiede solo qualche ora o giorno, così come la comparsa degli effetti collaterali. Ciò mantiene tuttora aperto il dibattito sui veri meccanismi biologici che stanno alla base della depressione, e si ritiene che le basse concentrazioni di neurotrasmettitore nelle sinapsi siano solo una tappa intermedia di un processo più complesso.

Modello Psicodinamico

La prospettiva psicodinamica ha trovato ampio respiro nelle teorie psicoanalitiche. Tali modelli considerano la depressione come manifestazione di aggressività rivolta contro di sè. In “Lutto e malinconia” (1917) Freud ha ricondotto la depressione ad una esigenza umana di difendersi, evitandone la consapevolezza, da quei sentimenti di ostilità nei confronti dell’oggetto perduto, da cui il soggetto sente ancora di dipendere. Per mantenere il rapporto con questo oggetto perduto e amato in modo ambivalente, il soggetto ne introietta l’immagine. L’introiezione serve anche come difesa nei confronti del lutto per la perdita di quella persona, dal momento che l’ambivalenza dei sentimenti risulta troppo conflittuale.
Ma il punto chiave della spiegazione psicoanalitica pare essere quello della fissazione infantile che determina una estrema dipendenza dagli altri, una dipendenza patologica. Qualsiasi perdita, anche simbolica, cioè non reale, è sufficiente, pertanto, a produrre una depressione. Per tale orientamento, le persone depresse hanno vissuto i primi mesi di vita in un clima di negazione, da parte dei genitori (particolarmente la madre), dei propri legittimi bisogni, ricavandone angoscia primaria, frustrazione e rabbia. L’atteggiamento genitoriale, ad un certo punto, cambia drasticamente. Sul bambino sono proiettati senso di responsabilità e dovere, e gli vengono prematuramente richieste le stesse cose. Sono per lui richieste impossibili, come ad esempio dover tollerare lunghi periodi d'assenza della madre, che gli viene richiesto di amare, molto spesso sotto la minaccia del rifiuto. La reazione alla privazione è la rabbia. Ma essere arrabbiati contro la sorgente dell'amore è intollerabile. Per cui la rabbia viene scissa dalla coscienza, rimossa e ri-diretta contro di sé. E’ il Super-Io che ritorce contro l'Io la stessa rabbia che l'Io precedentemente usò nella sua lotta con l'oggetto.
Riassumendo, il bambino si sente solo e fa esperienza di un sentimento d'annichilimento, ma sente anche, in altri momenti, di essere amato, perciò la sua stima viene ristabilita. Quando il Super-Io si sviluppa diventa regolatore del processo dell'autostima. Allora il sentimento di essere amato non è più l'unico prerequisito per stare bene, perché ora anche il sentimento di aver fatto bene e giusto è necessario. Il forte senso del dovere (dover amare) e della responsabilità della madre viene così interiorizzato dal bambino, che incomincia a sentirsi bene, a sentirsi amato, quando dà, quando fa bene ciò che la madre si aspetta da lui e quando ama. Quando non fa ciò che la madre si aspetta o quando sente che non lo ama va in crisi e si deprime.
Le persone depresse quindi, perennemente tendono a ripetere in una forma o in un'altra l'antico stato primario d'impotenza dell'Io.
Il paziente depresso è ambivalente, sia verso se stesso, sia verso l'oggetto. In relazione all'oggetto, gli impulsi d'amore sono più manifesti, mentre l'odio è nascosto. Solo l'analisi rivela che nel paziente depresso l'ostilità verso gli oggetti frustranti è ritorta in ostilità verso il proprio Io. L'auto-odio appare in forma di senso di colpa, effetto del conflitto tra Io e Super-Io.

Modello sistemico

L'approccio sistemico-relazionale ha costruito la sua metodologia clinica intorno all'idea che il disagio psichico sia il risultato di adattamenti ad un sistema relazione deviante ed illogico, e può quindi essere colto attraverso l'osservazione delle relazioni umane. Si tratta di relazioni specifiche, caratteristiche e necessarie per lo sviluppo di ogni individuo: quelle che, inizialmente, vengono a costituirsi all'interno del nucleo familiare.
Il paziente, allora, non è colui che subisce ed esibisce un sintomo, ma, paradossalmente, è esso stesso un sintomo: quello di un nucleo familiare disfunzionale.
La psicopatologia trova così soluzione al di là dell'individuo in sé e della sua organizzazione psichica, e al di là delle sue esperienze passate.
Ciò che è osservabile, ossia i comportamenti, le relazioni, la comunicazione, porta già scritto la storia del disturbo ed è, allo stesso tempo, il terreno su cui intervenire al fine di produrre il cambiamento terapeutico.
In quest'ottica, il soggetto depresso, si caratterizza per alcune modalità di relazione, identificabili soprattutto negli scambi familiari e/o nel rapporto di coppia. Le modalità comunicative ad esempio mostrano elevata incidenza di squalifica e messaggi paradossali.
La squalifica è la tendenza a diminuire di valore un atto comunicativo svolto in precedenza. Tale modalità toglie valore alla propria o altrui comunicazione, e a volte all’intera situazione. Produce effetti pragmatici che fanno variare anche la qualità e l’intensità della risposta emozionale ad essa.
La persona depressa riceve spesso messaggi paradossali dal proprio partner, che lo invita a prendere iniziative, o lo rimprovera perchè non lo fa. La risposta è in genere altrettanto paradossale, (ad esempio: “Dimmi tu cosa devo fare”), in modo da mantenere il comportamento dell’altro che, a sua volta è mantenuto dal proprio. Altro comportamento caratteristico del sistema familiare depresso è il care eliciting (Insieme di comportamenti che un individuo mette in atto per evocare negli altri risposte che possono essergli di conforto, che lo rassicurino). Inoltre, tale nucleo si distingue per la scarsità di scambi interni (per la maggior parte sono scambi di rimprovero o punitivi) e per la carente permeabilità di scambi esterni, basati soprattutto sul bisogno di cure e sostegno.

Modello cognitivo

L’approccio cognitivo prende il via principalmente ad opera di Aaron T. Beck ed Albert Ellis.
Beck, occupandosi della depressione, individua due caratteristiche inequivocabilmente cognitive nei suoi pazienti (in controtendenza con la psicanalisi, la quale puntualizzava soprattutto le relazioni affettive infantili e le relative conseguenze di esse): il pensiero automatico negativo, e le distorsioni cognitive. Da queste scoperte importanti, oggi centrali e riconosciute ampiamente, nasce la Cognitive Therapy. Ellis invece, occupandosi di problemi comportamentali e di disturbi psicologici come l’ansia, evidenzia che nell’atteggiamento dei pazienti erano evidenti idee e regole non realistiche ed “irrazionali”. Focus del trattamento diventa perciò l’attuale atteggiamento rigido ed assolutista del paziente e non la ricerca di cause nel suo passato. Il modello cognitivo non dispone di una metodologia coincidente con l’uso di una tecnica né di un trattamento univoco, ma si definisce e si caratterizza sulla base di una prospettiva centrale riguardo la psicologia ed il comportamento, così sintetizzabile: la condotta del soggetto è mediata dal significato che egli attribuisce agli eventi interni ed esterni con i quali si mette in relazione. Pertanto, la natura e la funzione della elaborazione dell’informazione costituisce la chiave per comprendere il comportamento disfunzionale e un positivo processo terapeutico. La teoria presuppone che la sintomatologia depressiva sia sostenuta da tre nuclei centrali maladattativi:
in primo luogo, la triade di cognizioni negative ricorrenti che influenzano direttamente il modo in cui gli individui considerano se stessi, il mondo e il futuro;
in secondo luogo, la presenza di schemi negativi, dei quali in genere il soggetto non è consapevole, basati sulle esperienze del passato, che lo portano a raccogliere, interpretare, etichettare le esperienze attuali con modalità prefissate e rigide;
infine, una serie di distorsioni logiche, ad esempio valutare solo in termini di “bianco o nero”, ingrandire o ridurre le esperienze che ci capitano, ragionare attraverso le emozioni che proviamo, formulare solo una serie di ipotetiche conclusioni negative delle situazioni, concentrarsi solo sugli aspetti negativi, generalizzare le esperienze negative. Le reazioni emotive di stress che conducono alla depressione, sarebbero determinate perciò dal nostro “filtro cognitivo”, cioè dal modo in cui  interpretiamo e valutiamo la realtà attraverso i nostri pensieri.
Caratteristica delle distorsioni è la loro natura automatica, involontaria e perseverante. A causa loro s’instaura quella che Beck definisce “triade depressiva”, comprendente:
-Visione negativa di sé  (autopercezione di inadeguatezza, indegnità personale, iperautocritica, ecc.);
-Visione negativa del mondo (valutazione delle proprie esperienze attuali in modo negativo e grave);
-Visione negativa del futuro (pessimismo e certezza che le difficoltà personali dureranno per sempre);
Ciò che si propone la teoria è identificare e sfidare le cognizioni distorte caratteristiche di ciascun paziente. La tecnica principale si basa sull’applicazione dei principi della logica e dell’indagine sperimentale ai pensieri automatici negativi con i quali il soggetto depresso percepisce, costruisce e anticipa la realtà che lo circonda. Gli interventi verbali sono inizialmente rivolti a scoprire tali cognizioni negative e, in genere, ciò porta ad un iniziale miglioramento del tono dell’umore con una riduzione della sintomatologia. In seguito, si cerca di modificare le convinzioni disfunzionali alla base di tali cognizioni, mediante interventi cognitivi ed eventualmente comportamentali, con l’obiettivo di rendere l’individuo meno vulnerabile a possibili future ricadute. Queste sono da considerare come modi di reagire appresi dalla persona che, per quanto disfunzionali, hanno acquisito, per chi li mette in atto, una certa funzionalità (ad esempio i vantaggi secondari), quindi, a fronte di situazioni intollerabili, in mancanza di strategie alternative, si ripropongono meccanismi abituali, già sperimentati.