L’eroe come paradigma dell’azione umana. Le rappresentazioni narrative da Achille a Drogo come prototipi psicologici.

Cristina Zanette, Claudio Fasola

PARTE SECONDA

Premessa: gli eroi omerici

Il repertorio mitologico della tradizione ellenica ha un carattere plurale e policentrico: ogni mito si sviluppa attraverso tante versioni alternative quante sono le comunità del mondo greco: una sola koinè, ma molte membra sparse, un unico nucleo narrativo, poi una nube di diramazioni, fastelli di vicende intersecate. Mille soluzioni di continuità perturbano l'andamento delle storie, sovente si trovano gli stessi dei e semidei in luoghi e tempi incompatibili tra loro. Quasi ognuno dei mille personaggi dei miti si muove in un grande gioco di rimandi (Wu Ming 1, Wu Ming 2, 2007).
L’epica è un patrimonio che cresce su se stesso: grazie alle loro caratteristiche formali di produzione e trasmissione orale a tema e sviluppo ciclico i vari racconti si andavano modificando ad ogni narrazione di aedi e rapsodi, attenti ai gusti e alle esigenze del pubblico, che assecondavano scegliendo quali storie ampliare e quali tagliare. Anche all’interno dell’Odissea troviamo la figura degli aedi in Demodoco e Femio, emblemi della funzione del preservare il repertorio della tradizione eroica, del mito oggetto di memorizzazione di massa e strumento primario di integrazione culturale (Cerri, 1996). 
La materia dei poemi omerici fa riferimento al mondo delle corti del Medioevo greco, dei sovrani che si vantano della loro discendenza da antichi eroi mitici, ai quali riconducono la propria nobiltà e legittimità dinastica; è il periodo che intravede anche, però, il tramonto della potenza achea e il profilarsi di nuove forme di organizzazione politica e sociale. La funzione che assumono i poemi diviene allora la glorificazione dell’antica potenza, dell’epoca in cui tutto il mondo greco, sotto la guida dei possenti sovrani achei di Micene, Argo e di Sparta, mosse compatto per vendicare l’offesa portata ad uno di essi: glorificazione di un mondo mitico, costellato di azioni gloriose tramandate a ricordo imperituro ai posteri (Cantarella, 1983).

Achille, eroe della società della vergogna

La società ellenica viene spesso definita come civiltà della vergogna, civiltà in cui unica regola d’agire, unico metro di giudizio dell’agire è la gloria.
Così Achille non esita nella scelta:

di me dice mia madre, la dea Teti dai piedi d’argento 
che due diversi destini mi portano verso la morte.
Se, rimanendo qui, continuo l’assedio alla città di Troia,
per me il ritorno è perduto, ma immortale sarà la mia gloria;
se invece ritorno a casa, nella mia terra nativa,
perduta è per me la splendida gloria, ma lunga sarà la mia vita,
presto, no, non mi coglierebbe il momento finale di morte
Il IX, 410- 416

Achille si presenta immediatamente incarnazione plastica delle virtù eroiche della civiltà della vergogna: è l’eroe della aretè bellica, l’eroe che pone la gloria al di sopra anche della sua stessa vita, l’eroe “gran baluardo” per tutti gli Achei nella guerra rovinosa (Il I, 283-284).  E’ il medesimo eroe che, però, non esiterà ad abbandonare le fila dei Greci a causa dell’ira (mhniV menis) contro Agamennone:

mi ha teso un tranello, mi ha fatto un torto
Il IX, 375

Ira inconcepibile se non fosse anch’essa interpretabile alla luce di quella gloria stessa per cui Achille era disposto a sacrificarsi: Agamennone, privando Achille di Briseide, lo priva non di una donna, ma del premio offertogli dall’esercito, premio che dunque veniva a sancire la sua gloria.

Nemmeno se dieci volte, venti volte mi desse
Di quanto è ora in possesso, ed altro magari acquistasse,
o quanto affluisce ad Orcomeno oppure a Tebe d’Egitto,
dove immense ricchezze si trovano dentro le case,
la città dalle cento porte, e sotto ciascuna passano insieme
duecento guerrieri con carri e cavalli; neppure se tante
cose mi desse quanti sono i grani di sabbia e di polevere,
nemmeno così Agamennone ancora potrebbe piegare il mio cuore,
prima che tutta paghi l’offesa, che mi divora l’anima
Il IX, 380-387

Attraverso l’iperbole della rappresentazione delle ricchezze del mondo Omero dà piena valenza simbolica a quel dono che nessun altro dono può sostituire: ciò che rappresenta la gloria non può essere assimilato nella civiltà aristocratica ellenica a nessun artefatto materiale. La spoliazione del premio pare spoliazione dell’identità stessa di Achille, che si sente

uno venuto da fuori, straniero senza prestigio
Il IX, 648

Al contempo Achille riconosce la legittimità rispetto al codice di guerra, altro valore primario dell’aretè greca, del gesto di Agamennone:

per la ragazza io non verrò alle mani
né con te né con gli altri, poiché me l’ha tolta chi me l’ha data
Il I, 298-299

E’ impasse. Così la lite tra Agamennone e Achille viene letta da Nestore alla stregua di una guerra civile che non può che portare sofferenza:

è senza famiglia né legge né focolare colui
Che vuole la guerra civile, straziante
Il IX, 63-64

Solo un dolore infinito e profondo, la morte del prediletto Patroclo, farà scemare l’ira di Achille verso Agamennone per sostituirsi con il desiderio di vendetta contro Ettore. Simultaneamente al cadere dell’ira si ha per Achille la reintegrazione sociale, il ritorno al valore (Il XIX, 36) e il riappropriarsi dell’epiteto di “Pelide magnanimo” (Il XIX, 75): torna il desiderio di “cogliere la gloria più fulgida” (Il XVIII, 121), di combattere contro i nemici Troiani (Il XVIII, 126). Il rientro nell’ordine sociale è rappresentato dalla convocazione dell’assemblea degli eroi achei, cui partecipano con gioia anche “quanti di solito restavano al campo navale” (Il XIX, 42) desiderosi di vedere Achille “riapparso” (Il XIX, 46), nuova epifania di chi aveva perso ciò che lo rendeva eroe agli occhi della società. La stessa Briseide, con una immediata e sorprendente rilettura, diviene ora una semplice “ragazza” per cui è assurdo un litigio, “una lite rabbiosa” tra eroi (Il XIX, 58); ugualmente l’intimo dolore per la morte dell’amico viene ora assunto come espressione di un disagio non personale, ma proprio di tutta la comunità achea. Viene allora allestito un banchetto, rituale comunitario, a sancire il ripristino dei ruoli e dei comportamenti necessari all’interesse collettivo; in Achille torna il concetto consolatorio della gloria che si rivelerà il vero tramite comunicativo tra la sua interiorità e la comunità cui appartiene (Paduano, 2008), rappresentando elemento comune di significazione degli eventi.

Odisseo, l’eroe del ritorno

Il mondo di Odisseo appare quasi antitetico a quello di Achille: il ritorno a casa che per il Pelide avrebbe avuto il senso di perdita dell’identità eroica, diviene per l’eroe di Itaca il riappropriarsi della propria identità di uomo, padre e marito fedele. Anche di fronte alle lusinghe di Calipso, alla stessa promessa di immortalità (Od V, 135-136) unico pensiero di Odisseo è il nostoV (nostos), il ritorno dalla moglie Penelope, unico modo per ristabilire, recuperare l’intero sistema valoriale del mondo greco, fatto di famiglia, patria, casa: alla gloria di Achille si è semplicemente sostituito, ma con pari forza simbolica, il desiderio del ritorno:

ma anche così desidero e invoco ogni giorno
di tornarmene a casa, vedere il ritorno
Od V, 219-220

La vera aristia di Odisseo, il suo vero valore si dimostrerà in patria:

“O Padre, gran fama di te sempre udivo,
ch’eri guerriero gagliardo di braccio e savio di mente;
ma troppo gran cosa dicesti: mi vince stupore! E’ impossibile
che due uomini soli lottino contro molti e fortissimi.”
Od. XVI, 241-244

Si tratta ancora di valore guerriero, di forza fisica, di abilità nell’uso dell’arco. Scopo di Odisseo, suggello finale dell’eticità del mondo dell’Odissea, è ristabilire l’ordine sociale sovvertito in casa sua dai pretendenti, recuperare la sua stessa casa al codice comportamentale e quindi valoriale del mondo omerico: i pretendenti si sono macchiati, oltre che della dissipazione delle carni, sostanza del regno di Odisseo, anche della mancata osservanza della ritualità del corteggiamento, dei doveri del supplice, dei doveri di ospitalità, cardini della società greca dell’VIII secolo.
Anche il rapporto con la divinità pare diverso nell’Iliade e nell’Odissea.
Nella civiltà iliadica l’uomo deve obbedire al volere degli dei:

si compiva il volere di Zeus
Il I, 5
Ma chi fu, tra gli dei, colui che li spinse a contesa?
Il I, 8

Nell’Odissea si pone, invece, per la prima volta la possibilità del libero arbitrio:

ahimè, come gli uomini accusano sempre gli dei:
dicono che da noi viene il male, ma sono anche loro,
per la loro follia, a soffrire i dolori oltre il destino.
Od I, 32-34

Ma permane assoluta in realtà la necessità di obbedire agli dei. Così Atena contrappone l’innocenza di Odisseo alla colpevolezza di Egisto [1]:

padre nostro, re dei re, figlio di Crono,
quell’uomo ha avuto una fine fin tropo giusta:
muoia così chiunque così si comporta!
Ma a me si strazia il cuore per il saggio Odisseo, infelice,
che soffre da tempo lontano dai suoi.
Od I, 45-49

Ugualmente la saggezza di Odisseo, espressa nella sua remissività di fronte agli dei, lo contrappone al suo equipaggio che, sacrilego, perse il ritorno:

molti dolori patì in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, benché tanto volesse:
per loro propria follia si perdettero, pazzi (atasqalihsin ataszaliesin)!
che mangiarono i bovi del Sole Iperione,
e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Od I, 4-9

Stessa lezione dovranno imparare i pretendenti, anch’essi colti nell’atto del mangiare, lezione che diverrà dimostrazione della stessa esistenza degli dei.

Zeus padre, sì, che esistono gli dei sull’eccelso Olimpo,
se veramente i principi la folle violenza pagarono.
Od XXIV, 351-52

L’eroe tragico

Il mondo rappresentato dalla tragedia classica del V secolo a.C. è un mondo lacerato dalle contraddizioni e il drammaturgo per esprimere la visione tragica di una realtà in urto con se stessa gioca sulle contraddizioni della lingua: una stessa parola acquista valore semantico diverso nella lingua comune, piuttosto che in quella giuridica, religiosa e politica e così in bocca ai diversi personaggi diventa ambigua, può assumere significati differenti ed opposti, ambiguità che traduce la tensione di valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Sullo spazio scenico si scambiano parole che non stabiliscono una comunicazione tra i personaggi, ma per le loro innumerevoli zone d’opacità e di incomunicabilità, ne sottolineano l’impermeabilità, ne fanno risaltare le linee conflittuali. “Ciascun eroe, chiuso nell’universo che gli è proprio, dà alla parola un senso ed uno solo. Questa unilateralità urta violentemente contro un’altra unilateralità”. Nel corso dell’azione ogni personaggio si trova letteralmente “preso in parola, una parola che si ritorce contro di lui arrecandogli l’amara esperienza del senso che egli si ostinava a non riconoscere”. L’universo si rivela conflittuale, aprendosi a una visione problematica del mondo; il personaggio tragico si fa, attraverso lo spettacolo, coscienza tragica. (Vernant, Vidal-Naquet, 1976, pp. 89-90).  Così con il termine nomoV (nomos) Antigone designa l’opposto di ciò che Creonte, in piena convinzione, chiama nomoV  (nomos): tra Antigone e Creonte si ha l’antitesi tra religione familiare, puramente privata, centrata sul focolare domestico e sul culto dei morti, e religione pubblica, dove gli dei tutelari della città tendono a confondersi con i valori supremi dello stato. Creonte rappresenta l’uomo del V secolo, fiero del proprio ingegno e della potenza ottenuta dall’abilità politica e che si oppone alla tradizione e ai valori dell’antica monarchia legata al popolo; Antigone è la fede nell’antica ed eterna moralità di chi si sente inserito in un ordine divino superiore.
A quali leggi l’uomo deve obbedire, quelle degli uomini o quelle degli dei?

CREONTE     Tu dunque hai osato trasgredire questa legge?
ANTIGONE   Ma per me non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike che dimora con gli dei inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dei.
Sofocle, Antigone 365 – 375
Eppure, poiché secondo questa legge ti ho particolarmente onorato, è sembrato a Creonte che questa fosse una colpa e che io abbia osato una cosa terribile […].
E quale legge degli dei ho trasgredito? Ma perché infelice mi rivolgo ancora agli dei? Chi chiamo in aiuto? Proprio per essere stata pia mi sono acquistata empietà.
Sofocle, Antigone 914 - 924

La trilogia eschilea della Orestea (458), pur portando sulla scena un avvenimento remoto, quando mito e storia si confondono, lo rivive nella discussione della realtà presente, rappresenta l’urto tra l’idea, dall’alta potenzialità emotiva, del distino crudele connaturato per volere divino all’esistenza dell’uomo e la razionalistica fiducia nelle potenzialità umane di dominare il destino, fiducia nata e rafforzata dalle guerre di Atene contro la Persia [2]. Sono messe in discussione, a livello sociologico e giuridico, le leggi della comunità, il suo diritto ad amministrare la giustizia in proprio, il concetto di ereditarietà della colpa; a livello etico l’esistenza di una divinità superiore e trascendente e la sua identificazione con gli dei della tradizione. Da un lato l’uomo è responsabile delle proprie azioni dall’altro la necessità lo pone di fronte ad una scelta in cui le alternative comportano comunque una colpa (Del Corno, 1981).

Così il possente Zeus ospitale
Contro Alessandro [3] invia i figli di Atreo [4]
Eschilo, Agamennone 60 - 61

Agamennone parte per preciso volere di Zeus; per partire deve obbedire però anche ad Artemide che gli ordina di sacrificare la figlia Ifigenia, di macchiarsi quindi della colpa.

E poiché di necessità entrò sotto il giogo,
spirando mutamento empio del cuore,
sacrilego, impuro, allora decise di tutto osare.
Turpe sciagurata follia, prima causa di sventure,
rende audace i mortali; ed egli osò
farsi sacrificatore della figlia, in aiuto alla guerra
vendicatrice di una donna,
sacrificio propiziatore alle navi
Eschilo, Agamennone 218 – 227

Il nomos, la legge viene dagli dei, ma alle volte le richieste divine configgono. Anche Clitemnestra uccidendo Agamennone obbedirà al nomos che chiede vendetta della figlia, “per Dike, vendicatrice della mia figlia” (Eschilo, Agamennone 1432), ma andrà contro il nomos uccidendo il marito.
Oltraggio giunge su oltraggio:

è difficile giudicare.
Chi preda è predato; chi uccide paga.
[…] la stirpe è saldata alla sventura
Eschilo, Agamennone 1560 - 1562

L’uomo tragico è colto al bivio di una scelta:

Non so che fare; l’angoscia domina il mio cuore; devo agire o non agire e tentare la sorte?
Eschilo, Supplici 379-380

L’uomo non riesce a sentirsi autonomo rispetto agli dei, deve “tentare la sorte”,  scommettere sugli dei, che però sono incomprensibili, che, quando interrogati, danno risposte equivoche, costringendo l’uomo a un gioco in cui rischia di rimanere intrappolato nelle proprie decisioni: l’ambiguità della situazione che spinge l’uomo a chiedere consiglio agli dei, pur se essi ascoltano e danno risposta, non si disvela, ma si trasforma in scommessa sull’ignoto.. Il piano divino è nella tragedia abbastanza lontano e distinto dal piano umano per potersi contrapporre ad esso, ma non abbastanza per non apparire inseparabile ad esso. L’uomo tragico, a differenza dell’eroe omerico, sperimenta se stesso come agente responsabile dei propri atti e con la sua gnome (gnome, conoscenza) e la sua fronesiV (fronesis, saggezza) del suo destino politico e personale.
Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo:

egli attraverso il canuto mare
pure nel tempestoso Noto
avanza, fra le onde movendo
che ingolfano intorno;
e l’eccelsa fra gli dei, la Terra
eterna, infaticabile, egli travaglia,
volgendo gli aratri di anno in anno,
rivoltandola con i figli dei cavalli.
Sofocle, Antigone 332 - 341

 L’uomo con la sua creatività ha sottomesso la natura, ha imparato ad organizzare con le leggi l’esistenza civile. L’azione umana ha fatto posto al dibattito interiore, alla premeditazione, senza, però, riuscire a sentirsi pienamente autonoma rispetto alle forze religiose che dominano l’universo (Vernant, Vidal-Naquet, 1976).
Un dubbio si insinua così nelle parole orgogliose del coro dell’Antigone:

possedendo, di là da ogni speranza,
l’inventiva dell’arte, che è saggezza (sofon, sofon),
talora muove verso il male, talora verso il bene.
Se le leggi della terra v’inserisce
E la giustizia giurata sugli dei,
eleva la sua patria; ma senza patria è colui
che per temerarietà si congiunge al male:
non abiti il mio focolare
né pensi come me
chi agisce così.
Sofocle, Antigone 365 – 375

Solo al termine del dramma ogni evento potrà acquistare agli occhi degli agenti una piena significazione. Inconciliabile è il conflitto fra libertà e necessità: “la tragedia è lo scontro tra la volontà e la necessità, il confine dove si fronteggiano il riconoscimento della determinazione imposta dall’esterno e l’impulso a determinarsi in forma autonoma” (Del Corno, 1982, p. 16).
Il personaggio tragico diviene così esemplificazione di un uomo che non potendo condividere un comune orizzonte di significazione con chi condivide con lui lo spazio scenico, non potendo cioè comunicare, si ritrova solo, senza possibilità di dare neppure a se stesso e ai propri gesti un significato pieno. Ogni sistema umano è generatore di linguaggio e per ciò stesso generatore di significato; l’incomunicabilità nega l’occorrenza di un sistema socio-culturale, in quanto significato e comprensione del mondo sono socialmente costruiti, non entità ontologiche proprie di una realtà oggettiva ed esterna al soggetto conoscente: ogni interpretazione, ogni idea nasce dall’interazione ed è mediata dal linguaggio, si rinnova e si modifica in ogni momento dell’interazione (Hoffman, 1982). Il personaggio tragico dimostra come il costrutto disposizionale di personalità, che vuole l’uomo portatore di qualità preesistenti, forze causalistiche e deterministiche del comportamento, non sia in grado di far comprendere né i comportamenti del soggetto né le interpretazione che il soggetto stesso dà alle proprie ed altrui azioni.

Il tenente Drogo, eroe della complessità

Vent’anni, ufficiale di prima nomina, il tenente viene inviato alla fortezza Bastiani: “Era il  giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita” (p. 23). Doveva passare pochi mesi in quella costruzione militaresca, antica e deserta da cui traspirava un’aria inospitale e sinistra, ma vinto dal “richiamo della terra del nord, del leggendario regno che incombeva sulla Fortezza” (p. 43) vi consumò la vita nell’attesa del suo momento eroico.
La vita alla Fortezza era regolata in ogni dettaglio dal regolamento, da un formalismo militare portato alle estreme conseguenze: “Tronk [5] inseguiva gli articoli del regolamento, la disciplina matematica, l’orgoglio della responsabilità scrupolosa, e si illudeva che ciò gli bastasse” (p. 76). Tutto era organizzato e predeterminato dal regolamento, ogni gesto, ogni pensiero assumeva senso dalla sua minuta ritualità, dalla fattura della divisa,  “la moda ha da essere il regolamento” (p.72), alle modalità di sepoltura dei soldati, “il fucile e l’uniforme saranno sepolti con lui perché questa è l’antica regola della Fortezza”.. Si poteva anche morire per il regolamento, si poteva anche uccidere un amico che senza rispettare il regolamento era uscito dalle mura della fortezza: “ma la sentinella non era più Moretto, era semplicemente un soldato con la faccia dura che adesso alzava lentamente il fucile, mirando contro l’amico. […] Ma la sentinella non era più il Moretto con cui tutti i camerati scherzavano liberamente, era soltanto una sentinella della Fortezza, in uniforme di panno azzurro scuro con la bandoliera di mascarizzo, assolutamente identica a tutte le altre nella notte, una sentinella qualsiasi che aveva mirato ed ora premeva il grilletto” (p. 118). L’uomo legge la propria identità nel conformarsi alla divisa: le istituzioni sociali rivendicano l’autorità al di sopra dell’individuo, indipendentemente dai significati soggettivi che ognuno può dare ad ogni particolare situazione. “Quanto più, a livello di significato, la condotta viene data per scontata, tanto più le possibili alternative ai programmi istituzionali scompariranno, e tanto più la condotta diverrà prevedibile e controllata” (Berger, Luckmann, 1966, p. 94).
“I soldati erano fermi come statue, i loro volti militarmente chiusi. No, certo essi non si preparavano ai monotoni turni di guardia; con quegli sguardi da eroi, certo, pareva, andavano ad aspettare il nemico” (p. 57). La vita alla fortezza è spesa nell’attesa del nemico, “dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno” (p. 75), e così ogni gesto deve assumere, assume nella significazione di ciascuno, il valore di un gesto eroico.
“Era l’ora delle speranze. E lui tornava a meditare le eroiche fantasie tante volte costruite nei turni di guardia e ogni giorno perfezionate con tanti particolari. […] Era l’ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che probabilmente non si sarebbero verificate mai, ma che pure servivano a incoraggiare la vita” (pp. 105-106). Quando un individuo pensa alla propria quotidianità, alla propria vita sente la necessità di integrare i loro significati in un quadro biografico coerente: “la logica non risiede nelle istituzioni e nelle loro funzionalità esterne, ma nel modo in cui esse sono trattate quando si riflette su di esse” (Berger, Luckmann, 1966, p. 96). “Non si erano adattati alla esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima” (p. 75).
I soldati della Fortezza non sono però eroi omerici a cui Zeus o la tiche, il destino, riservò il momento glorioso della distruzione di Troia o della cacciata dei sacrileghi pretendenti. La vita alla Fortezza vive della speranza: “quassù è come in esilio, bisogna pure trovare una specie di sfogo, bisogna ben sperare in qualcosa. Ha cominciato uno a mettersi in mente, si sono messi a parlare dei Tartari, chissà chi è stato il primo…” (p.195).
Come Achille può rientrare nell’ordine costituito della società della vergogna nel momento stesso in cui si riappropria della necessità di combattere per la gloria, nel momento, cioè, in cui torna a leggere e interpretare il suo mondo secondo il medesimo sistema valoriale dei suoi soldati, così Drogo e i militari della fortezza condividono il medesimo racconto, il medesimo ordine di valori e di significati.
Un giorno, finalmente, il grido tanto atteso: “Vengono! Vengono!” (p. 234). Il tenente Drogo, però, ormai vecchio, è a letto, ammalato, incapace di alzarsi. Morirà lontano dalla Fortezza, senza poter sapere se la guerra alla fine era davvero arrivata o se si trattava di un’altra ennesima illusione. “La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un’orgogliosa scommessa tutto era stato perduto” (p. 252). “Povera cosa gli risultò quell’affannarsi sugli spalti della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa” (p. 254). Mancherà per sempre al tenente l’atto finale che avrebbe dato ragione all’attesa di una vita, coerenza e senso alla vita stessa. Eroe postmoderno cui è negata la possibilità di una comprensione complessiva del mondo e della storia.


[1] Figlio di Tieste e della figlia di questi, Pelopia, della casa degli Atridi. Quando la madre seppe della paternità, abbandonò il figlio che venne allevato da una capra (aigoV aigos, capra). Crebbe poi presso la casa dello zio Atreo, usurpatore del regno di Tieste. Cresciuto riconobbe il padre ed uccise lo zio. Mentre Agamennone, sucessore di Tieste nel regno di Micene, stava combattendo a Troia ne sedusse la moglie Clitemnestra e, al ritorno del re, complottò con lei per ucciderlo e impadronirsi del regno. Regnò per sette anni fino al ritorno di Oreste che vendicò la morte del padre con l’uccisione della madre e del suo amante.

[2] In particolare le grandi vittorie ottenute da Atene sull’impero persiano a Maratona (490) e Platea (479), che segnano l’apice della potenza della polis greca.

[3] Ettore, che aveva sedotto e rapito la bellissima Elena, sposa di Menelao, contravvenendo alle regole dell’ospitalità.

[4] Agamennone e Menelao, posti a comando della confederazione dei principi achei partiti alla volta di Troia

[5] Un sergente maggiore, “vecchia creatura della Fortezza” (p. 56).

Conclusioni    

Bibliografia