Identità Personale e Psicoterapia. Alla ricerca di un referente concettuale nel percorso di cambiamento

Claudio Fasola

Le cose non devono essere avvenute realmente per essere vere.
Le storie e i sogni sono verità rivestite d’ombra che sopravvivranno
quando i nudi fatti saranno polvere, cenere, oblio.

Neil Gaiman

 

1. Introduzione
Le riflessioni sui costrutti di identità personale (Salvini, 1998; Sparti, 2000) e postmodernità (Mecacci, 1999) si configurano come una necessità teorica ed operativa negli studi e nelle prassi psicologiche contemporanee (Fasola, 2005). Questi contributi hanno fornito, nel dibattito sulla funzione e sul significato della psicoterapia, una serie di strumenti concettuali, utili per valutare la portata euristica di modelli e teorie differenti e per tratteggiare nuovi orizzonti in cui sistematizzare i contributi più recenti.
Muovendosi da una posizione che considera la psicoterapia come qualsiasi altro processo umano e quindi appartenente ad una matrice storicamente e culturalmente veicolata (Inghilleri, Fasola, 2005) e come in tale attività convivano antinomie epistemiche e tradizioni difficilmente armonizzabili (Turchi, Perno, 2002), si è deciso di utilizzare l’identità personale come referente operativo, la cui funzione non sia quella di offrire al terapeuta la sicurezza di una via maestra, ma piuttosto quella di configurare una strada, fra le tante immaginabili, che sia capace di trasformare i dubbi che soffocano l’intraprendenza di un uomo di mezza età, nel riflesso della saggezza e del rigore critico di un uomo maturo.

2. Gli Orizzonti dell’Identità Personale
2.1 Dal Soggetto all’Identità Personale
Questa riflessione configura un ampliamento dei confini operativi del gestore dei processi di cambiamento. L’abbandono di una visione soggetto - centrica conduce le specificità sociali e culturali, che legano cliente e psicoterapeuta, all’interno dei processi di cambiamento. Appare opportuno che il terapeuta non si limiti a divenire un esperto dei processi attraverso cui la realtà prende forma nelle rappresentazioni discorsive del proprio cliente, ma divenga altrettanto competente della tradizione simbolica attraverso cui quel tipo di racconto può modellarsi.
La formazione stessa dello psicologo clinico deve poggiarsi su ampi orizzonti di senso e non può limitarsi ad una costante, per quanto raffinata, riduzione della complessità sociale a stilemi psicologici, la cui principale funzione è garantire una dignità autoreferenziale ad una riflessione teorica incapace di cogliere l’altro nei suoi spazi di cambiamento. Date queste premesse risulta chiaro come l’arbitrario tentativo di ricondurre le prassi della psicologia clinica al modello medico appartenga maggiormente a logiche di potere piuttosto che di confronto scientifico.
Questo percorso teorico è rappresentabile come una spirale che esclude la possibilità di una sua ricongiunzione e si apre costantemente a nuovi spazi, avvicinandosi, sebbene in un piano diverso, al clima di confronto che permise lo sviluppo del pensiero interazionista, il quale prese forma dall’incontro fra filosofi, psicologi, pedagogisti, antropologi e sociologi. Da questo consesso emerse uno spazio interattivo che liberava le possibilità di scelta personali dai vincoli del determinismo ottocentesco, tracciando un percorso che appariva più affine al pensiero sofista di Gorgia e Protagora (Maso, Franco, 1995; Untersteiner, 1996), piuttosto che agli studi di Charcot (1876, 1880) e Kraepelin (1915).
L’attività clinica per potersi garantire uno spazio di necessità nel tessuto sociale odierno, deve produrre un sapere esperto che non abbia paura di confrontarsi con la dimensione dialettica che caratterizza le diverse discipline sociali e scientifiche ed i possibili discorsi umani che si costruiscono attorno ad esse.
Per lo psicologo clinico un testo quale L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (1900) possiede la medesima rilevanza dell’Iliade di Omero (720 a.c., ca.), di 2001: A Space Odyssey di Stanley Kubrick (1968) o di Kind of Blue di Miles Davis (1959). È all’interno di ogni intervento di cambiamento che questo spazio di rilevanza muta, essendo diversa l’estensione di pervasività di questi referenti socio-simbolici nelle rappresentazioni di sé delle diverse persone.

2001: A Space Odyssey - Stanley Kubrick

2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968

Se citare il celebre passo del Riccardo III di Shakespeare (1595) “Ora l'inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole di York, e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell'oceano” può essere la miglior chiosa possibile di fronte ad un professore di lingue che ha visto sconfitta la certezza della propria impotenza, esso può, al contempo, risuonare vuoto e ridicolo agli occhi di un ventenne irretito e sconfitto dalla voracità di una compagna insoddisfatta.
La matrice culturale di riferimento si declina in forme nuove in ogni spazio interattivo, sia esso terapeutico o relazionale, e lo psicologo clinico che ne omette una parte, perseguendo l’obiettivo di celebrare il rigore dei propri interventi, rinuncia alla possibilità di ridefinire, nell’interazione con l’altro, nuovi spazi di realtà.
Affrontare nel medesimo modo lo smarrimento esistenziale per un futuro nebuloso e inquieto raccontato da una ragazza di diciassette anni, nella Berlino del 1934, nella Buenos Aires del 1977 o nella New York del 2001, non solo rappresenta il goffo tentativo di un pensiero che anela all’imperitura genuflessione sociale destinata a chi è capace, dalla fine degli anni venti fino ad oggi, di riconoscere e di trattare in modo inequivocabili tre “diversi” casi di tubercolosi, ma rende evidente quanto il corredo disposizionale – personologico e la centratura operativa sul singolo soggetto siano esclusivamente una possibile configurazione del mondo, ma non certo un suo disvelamento.
La possibilità di partecipare alla modificazione dei processi decisionali e rappresentazionali della ragazza si realizza nella comprensione del mondo sociale e relazionale in cui vive. Dalle pieghe di questo tessuto si possono generare inflessioni verbali ricorrenti, riconoscibili nel consumo smodato di metafore triviali, o la definizione di una particolare immagine di se stessi, rappresentabile attraverso una maglietta, aderente e provocante, decorata con una scena di vita quotidiana del villaggio dei puffi (Peyo, 1958); il terapeuta, grazie a queste configurazioni, può dare senso alle proprie mosse ed intervenire sui processi che sostengono una particolare realtà dialogica.

Les Schtroumpfs - Pejo

I puffi, Pejo, 1958

2.2 Dalla Matrice Socio-Culturale all’Identità Personale
La rilevanza di queste argomentazioni non si esaurisce nella messa in crisi di un certo modo di considerare l’attività di psicoterapia, ma appartiene ad uno spazio organizzato secondo le coordinate teoriche del pensiero interazionista. Dimenticando queste coordinate si opererebbe nella medesima e fallace equivalenza delle forme di pensiero che si stanno analizzando, sollevare la persona dal ruolo e dallo spazio interattivo che occupa nei processi di cambiamento, spogliandola della propria dimensione partecipativa ed intenzionale limiterebbe questa riflessione al semplice spostamento di polarità all’interno del medesimo costrutto. Distanziandosi da alcune riflessioni teoriche che, radicalizzando le proprie posizioni, esprimono un rifiuto stesso della persona come proprio referente teorico, il pensiero interazionista garantisce alla persona il medesimo spazio di dignità della matrice sociale in cui interagisce. Escludendo la costruzione intenzionale e personale della realtà, si cadrebbe, infatti, in una nuova oggettivazione del mondo sociale, le cui posizioni sarebbero colonizzate dalla convinzione di poter cogliere una realtà effettiva grazie ad un ipotetico terapeuta demiurgo, capace di sostanziare le realtà fittizie con cui si trova ad interagire.
Se la matrice culturale di riferimento fornisce ad una biologa neolaureata le idee attraverso cui configurare l’immagine di un uomo che la possa liberare dalle spoglie pareti di un laboratorio di ricerca, allo stesso modo tale immagine può differire da quella della sorella ventenne che sovrappone i propri pensieri alle pagine di un dramma di Ibsen (1879) e mentre solletica stancamente i propri capelli, ricerca uno sguardo che la possa emozionare come l’attesa di una prima in un teatro di provincia.
La possibilità di cogliere il senso di due desideri irrealizzati e le configurazioni di nuove possibilità in cui riconoscersi nuovamente come felici, non può prescindere dall’acre profumo di un corpo mosso dalla passione, o dai ricordi traghettati alla coscienza da una fragranza che racchiude in sé il significato del proprio smarrimento.
Lo psicologo interazionista non deve quindi farsi irretire dalla portata iconoclasta di un pensiero, che se da un lato ha contribuito a smantellare le inconsistenze di una psicologia centrata sul soggetto, dall’altro rischia di escludere l’autore stesso della sua riflessione.

2.3 L’indeterminatezza icastica dell’Identità
Per comprendere con una analogia la posizione teorica del costrutto di identità è possibile fare riferimento alle relazioni che intercorrono fra uomo e donna. La struttura relazionale del gioco è ben definita da regole, posizioni e ruoli, ma l’interdipendenza delle parti non esclude idiosincrasie ed iniziative personali, anzi essa stessa le incoraggia, rendendo possibili iniziative, individuali o collettive, impreviste ed è nella messa in atto di queste azioni che si crea l’incertezza ed il fascino della seduzione.
Se George Mead (1932, 1934) concepiva la società come una ricreazione permanente generata dagli uomini che a loro volta sono generati dalla società (Marc, Picard, 2002), Norbert Elias (1939, 1987) si spingeva oltre, non limitandosi ad affermare che la società produce degli individui che producono la società, ma collocando l’identità all’incrocio di questo duplice processo (de Gaulejac, 2002). Il costrutto di Identità può essere considerato, riferendosi alla terminologia cognata da Marcel Mauss (1923-24) come un “fatto sociale totale” in quanto in essa convergono dimensioni psicologiche, sociologiche, economiche, giuridiche, etiche ed antropologiche, e contribuisce ad una configurazione olistica degli interventi psicoterapici.

3. L’Identità nel Percorso di Cambiamento
3.1 L’apertura all’Identità
Nell’intervento terapeutico lo spazio di cambiamento avviene in una vergenza mediana che prende il nome di identità personale, la quale rappresenta una sorta di nemesi dialogica nei confronti delle prigioni soggettivistiche e dei vaghi orizzonti socio-culturali che rappresentano il fulcro di altre prassi operative. In questo spazio, dove convivono la volontà riorganizzatrice della realtà tipica dell’uomo ed il senso dialettico della storia che di questa realtà è cornice e specchio, si ricombinano le infinite possibilità narrative che intrecciano i percorsi personali e quelli sociali.
In questo contesto i pensieri sfuggono sia alla determinatezza del singolo che all’indeterminatezza delle infinite possibilità della matrice culturale di riferimento per collassare nella dimensione ermeneutica dell’identità personale, la quale, nel cosiddetto contesto terapeutico, viene gestita congiuntamente dallo psicologo e dal cliente. L’organizzazione operativa di tale percorso, data la disparità di ruolo fra le due parti, spetta al terapeuta, il quale in relazione alle dimensioni discorsive e dialogiche che emergono nella interazione fra le parti mette in atto una serie di mosse ed azioni con l’obiettivo di generare una configurazione di realtà in cui sia possibile sperimentare un cambiamento.

3.2 Per una Psicoterapia Postmodernista
L’identità personale è configurabile come un costrutto postmodernista in quanto in esso confluiscono, in assenza di continuità apparente, le molteplici rappresentazioni attraverso cui l’uomo ha declinato se stesso, dalle caverne di Meaux e Lascaux sino alle foto delle stelle cinematografiche di Anne Leibovitz (1983), entrambe ricostruite e ordinate da uno sguardo che può essere tale solo inserendosi all’interno del medesimo percorso generativo.

Lascaux

Lascaux, 15,000 - 13,000 AC

Tale convergenza trova nell’opera di Andy Warhol (1962-1967) una possibile rappresentazione visuale. Essa permette di cogliere in modo evidente in quale piano di realtà trova significato il costrutto di identità ed entro quale livello si può indurre un processo di cambiamento. Le sue opere hanno disvelato il piano di realtà artistico – artificiale di immagini offerte ad occhi ingenui come autentiche – naturali. Le rappresentazioni wharoliane abbandonano l’aggancio a realtà ipotetiche per tratteggiare rappresentazioni che si sostanziano per il solo fatto di essere pensate e messe in scena in orizzonti condivisi, declinando così, sebbene in termini inconsapevoli, una dimensione concettuale della realtà, pensata come unico, ma plurimo teatro dell’umanità.
 

Marilyn - Andy Warhol

Norma Jean
ovvero del realismo monista

Marilyn Monroe
ovvero del realismo ipotetico

Marilyn
ovvero del realismo concettuale

     
In tale orizzonte la confusività espressiva e relazionale di un uomo, plurimo e costantemente altro in rapporto ad i contesti relazionali e normativi in cui si trova immerso, può essere compresa in un sistema teorico ad esso speculare. Il sovrapporsi di referenti colti o grossolani, di esperienze significative accanto a momenti tragici o ridicoli, tratteggia discorsi che non possono essere riorganizzati attraverso “teorie forti”, tese alle spiegazione e all’ordine, che solo in un mondo temporaneamente governato dal pensiero positivo troverebbero la loro ragion di essere. 
Il desiderio di molti di essere altro rispetto a quello che credono di essere, o di vedere confermato quello che con molta fatica hanno sanzionato come vero, trova nelle forme terapeutiche limitate a ricercare “chi si è veramente” la ragione del proprio fallimento, ma sfuggono anche alle pratiche che, esplicitamente o meno, sottraggono alla persona il proprio diritto di rivendicare la propria presenza come unico riduttore di complessità possibile.
Quando la società passa da una struttura gerarchica stabile ad una struttura reticolare mobile, i concetti di sé e le identità tipizzata storicamente consolidate iniziano a vacillare e ad ogni persona viene delegato il compito di costruire una teoria di se stessi coerente e stabile come risposta ad una organizzazione sociale incapace di assicurare tali certezze. Si può affermare che il retaggio della società medievalista nella quale il soggetto non era altro che il riflesso del ruolo interpretato e nella quale l’unica rappresentazione di sé possibile era quella che si ancorava al ruolo sociale incarnato sia ormai disgregato nelle forme comunitarie postmoderniste. Nelle società occidentali contemporanee gli indicatori che sostanziano le rappresentazioni di sé sono molteplici, eterogenee e mobili, l’identità postmoderna è quindi multiappartenente (Mendel, 1983). La persona può occupare simultaneamente o cronologicamente posizioni diverse, avere status differenti e ricoprire più ruoli sociali. È quindi a fronte di queste possibili configurazioni di realtà che la prassi terapeutica deve organizzare le proprie specificità.

3.3 Il modello interattivo – dialogico e l’identità personale
Lo sviluppo postmoderno della teoria interazionista, centrato sul costrutto di identità personale, si configura come un contributo portante per l’applicazione del modello interattivo – costruttivista [1], partecipando alla definizione delle sue prassi di intervento ed inserendosi in una riflessione tesa alla demistificazione di quelle considerazioni o di quelle modalità di intervento il cui senso scientifico appartiene solo a dimensioni storico-politico piuttosto che argomentative. In queste posizioni si possono riconoscere teorie e prassi di intervento basate sull’impropria analogia, espressa in termini impliciti od espliciti, che considera le “azioni” umane come l’epifenomeno di un substrato oggettivamente rilevabile, alla stregua dell’evidenza di una infezione causata dalla presenza di un agente batterico. Ma se le scienze sociali e psicologiche trovano nel logos la ragione della loro specificità l’utilizzo di razionalizzazioni meccanicistiche poco si sposta da vaneggi metafisici o antiche superstizioni.
Il terapeuta interazionista non padroneggia risposte, ma piuttosto una teoria ed un modello ed è da questa conoscenza che genera la propria prassi operativa, la quale trova il suo rigore non nell’abbacinante messa in scena di verità precostituite, ma piuttosto nell’accettazione della dimensione plurima della conoscenza e della valenza pragmatica degli interventi di cambiamento.

4. Conclusioni
Per poter affrontare tematiche quali transessualità, pedofilia, consumo di sostanze illegali, sindromi anoressiche o semplici gelosie, il professionista del cambiamento assume una posizione analoga a quella di un giurista di fronte a differenti condotte criminali. La differenza consiste nel fatto che giudici ed avvocati si rifanno ad un codice la cui condivisione non è richiesta agli attori della storia, al contrario lo psicologo fa riferimento ad un codice condiviso, le cui regole appartengono ad una matrice sociale, piegata alle rappresentazioni individuali e la cui riscrittura avviene nello scambio dialogico fra le parti. Non comprendere la specificità di un racconto ed i processi sottesi al suo dipanarsi conduce lo psicologo a trovare nella “resistenza al cambiamento” la ragione dei propri fallimenti. Credere che la forza della propria professionalità consista nel ridurre la complessità di una vita al resoconto di una cartella clinica, equivale al vaniloquio di chi, dopo avere sfogliato un atlante, tenti di convincere gli altri di aver veduto tutto il mondo e, non soddisfatto, rediga una guida turistica attraverso cui imbrigliare le infinite possibilità di un percorso non ancora segnato.

 

Riferimenti Bibliografici

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Davis, M. (1959) Kind of Blue, Columbia.
De Gaulejac, V. (2002) Identità, in Barus-Michel, J., Enriquez, E., Lévy, A. (a cura di) Dizionario di Psicosociologia, Raffaello Cortina, Milano, 2005.
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Freud, S. (1900) L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 1985.
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Inghilleri, M., Fasola, C. (2005) “La dimensione storica e sociale della psicoterapia: dalla cura del sé ai cambiamenti nell’identità personale”, in Fasola, C. L’Identità. L’altro come coscienza di sé, Utet, Torino.
Kraepelin, G. (1915) Dementia Precox and Paraphrenia, E & E Livingstone, Edinburgh.
Kubrick, S. (1968) 2001: A Space Odyssey, MgM, Usa, Uk.
Leibovitz, A. (1983) Photographs, Pantheon, New York.
Mauss, M. (1923-24) Saggio sul dono. Forma e Motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002.
Maso, S., Franco, C. (1995) Sofisti: Protagora, Gorgia, Dissoi logoi. Una reinterpretazione dei testi, Zanichelli, Bologna.
Mead, G.H. (1932) La filosofia del presente, Guida, Napoli, 1986.
Mead, G.H. (1934) Mente, sé e società; Giunti-Barbera, Firenze, 1966.
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Salvini, A. (1988) Pluralismo Teorico e Pragmatismo Conoscitivo: Assunti Meta- Teorici in Psicologia della Personalità, in Fiora, E, Pedrabissi, L., Salvini, A., Pluralismo teorico e pragmatismo conoscitivo in psicologia della personalità, Giuffrè, Milano.
Salvini, A. (1998) Psicologia Clinica, Upsel, Padova.
Sparti, D. (2000) Identità e coscienza, Il Mulino, Bologna.
Turchi, G.P., Perno, A. (2002) Modello medico e psicopatologia, Upsel, Padova.
Untersteiner, M. (1996) I sofisti, Bruno Mondadori, Milano.
Warhol, A. (1962-1967) Marilyn.


[1] I fondamenti del modello interattivo - costruttivista possono essere individuati negli studi di Alessandro Salvini (1988), la cui riflessione delinea la posizione conoscitiva detta di Pluralismo Teorico e Pragmatismo Conoscitivo, definisce i costrutti di Realismo Concettuale e Soggetto Epistemico Plurimo, riconfigura i significati del cosiddetto Senso Comune e traccia una possibile linea di coerenza nel paradigma antropomorfista.