L'integrità dell'anima. Storie di donne vittime di violenza. Le nuove prassi di intervento

Silvia Lelli

4.   La violenza perversa
                                                                                                                                   
“Ci sono due specie di persone.
Ci sono quelli  che vivono, giocano e muoiono.
E ci sono quelli che si tengono in equilibrio sul
crinale della vita.
Ci sono gli attori.
E ci sono i funamboli.”
(“Neve”, M. Fermine)

                                              
                                                                                                            
M. F. Hirigoyen, psicoanalista e psicoterapeuta familiare, offre una lettura del fenomeno della violenza  privata estremamente interessante, individuandone alcune modalità relazionali sottostanti.
La stessa autrice  parla di rapporto molesto che ha luogo attraverso l’attuarsi di due fasi: una di seduzione perversa, l’altra di violenza palese.
Esiste un aggressore (o perverso) ed esiste la sua vittima.
All’interno della fase di seduzione perversa, c’è una fase di condizionamento nella quale avviene la dominazione dell’altro, il suo spossamento e dove la violenza è silente ed insidiosa.
L’aggressore conserva il suo potere ed il controllo attraverso la seduzione.
A tal proposito, Hirigoyen descrive l’inganno morale quale  processo che mette chi è sedotto nella condizione di temere, paradossalmente, l’abbandono (“ se mi dimostro più docile, magari alla fine mi apprezzerà o mi amerà”).
La comunicazione diviene, così, una comunicazione perversa atta ad impedire o ostacolare l’unione e lo scambio. Le modalità sono molte. Rifiutare la comunicazione. Negare il conflitto “aperto”così da “paralizzare” l’altro. Utilizzare un gergo tecnico, astratto, poco accessibile all’altro. Utilizzare non detti, sottointesi, allusioni. Utilizzare il paradosso, dando luogo ad un divario tra le parole dette ed il tono con cui le si pronuncia. Squalificare l’altro. Imporre il proprio potere con la parola, la “verità”.
Le donne che subiscono violenza, con le quali lavoro, hanno per anni costruito e condiviso una realtà con tutti i suoi significati all’interno di relazioni con partners dai quali faticano ad immaginarsi separate; difficilmente si sottraggono ad una modalità comunicativa e relazionale ambigua, che lascia spazio alla contraddittorietà, al messaggio paradossale. Ciò spesso le immobilizza  per molto tempo, se non per sempre.
Il gioco relazionale diviene un gioco senza fine. Spesso, in questo tipo di relazione, si osserva quella che viene definita complementarità rigida (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971).  La prima richiesta di aiuto da parte della donna può rappresentare il suo primo tentativo al fine di interromperlo.