Bauman: i media? Oggi servono testimoni attivi

Francesco Ognibene

Avvenire 8 Novembre 2002
Sarà lui oggi ad aprire a Roma, insieme al cardinale Ruini, il convegno della Chiesa italiana sulla cultura nell'era mediatica. Una scelta precisa: con i suoi studi sulla postmodernità e l'intimo "disagio" che la segna (per riprendere il titolo dell'ultimo libro apparso in Italia), il sociologo polacco Zygmunt Bauman si è proposto come uno dei più lucidi studiosi dei grandi fenomeni del nostro tempo. Parlare con lui di società, mass media e cultura è un modo diretto per entrare nel vivo del dibattito dei prossimi giorni.

Professore,il crescente flusso di messaggi da una sempre più nutrita schiera di fonti mediatiche produce effetti sulla coscienza della gente?

"Certamente. Il filosofo francese Paul Virilio parla di "bomba informativa" che si accinge a esplodere, più pericolosa ancora della bomba atomica. Sembrava che la sfida consistesse nel dipanare il mistero della natura: una volta che avessimo conosciuto le sue leggi, l'avremmo dominata e asservita alle esigenze umane. È sempre più chiaro invece quanto fosse ingenua una simile convinzione. Oggi la sfida è come assimilare la conoscenza accumulata e farne un uso sensato, come separare il prezioso grano dell'informazione importante dalla paglia inutile. Il flusso dell'informazione sembra disattivare il pensiero anziché abilitarci a esso. Non c'è tempo per concentrarsi, focalizzare l'attenzione, riflettere. Il pensiero critico e creativo richiede tempo per soppesare:

ma il tempo è un bene che i media non possono fornire. Se a Emile Zola avessero dato l'opportunità di difendere Dreyfus in televisione, gli sarebbe stato dato giusto il tempo per gridare "j'accuse!"...".

L'informazione globale ci illude di conoscere tutto,ma non ci concede la speranza di poter cambiare qualcosa. Questo senso di impotenza non rischia,a gioco lungo,di renderci indifferenti?

"Questa è probabilmente la difficoltà maggiore con la quale oggi si confronta qualsiasi sforzo di estendere la nostra coscienza morale sulla dimensione globale dei problemi e dei compiti che tutti condividiamo. Siamo "in stato di attesa" ("by-standers"), testimoni silenti e passivi, che vedono e ascoltano, ma che possono far poco perché accadano fatti positivi e per prevenire o bloccare quelli negativi.

Come elevare i "by-standers" al livello di attori?

Non ci aiuta a rispondere il modo in cui l'informazione è offerta. Ci vengono proposte immagini scioccanti di povertà umana, ma nessuno ci aiuta a comprendere le cause profonde e i complessi meccanismi che fanno ogni volta riemergere la miseria malgrado la nostra solidarietà. Dubitiamo della capacità di cambiare le cose in meglio visto che ignoriamo il nesso tra ciò che facciamo (o non facciamo)e quanto ci viene mostrato dalla Tv".

C'è una via d'uscita?

"Dipendiamo gli uni dagli altri, dunque siamo oggettivamente responsabili del prossimo. Quello che facciamo o non facciamo fa la differenza per la vita e le opportunità altrui. Il passo decisivo oggi è assumersi la responsabilità di ciò che già ci compete, e agire di conseguenza. Invece veniamo spinti a trovare (invano) soluzioni locali per problemi globali, a cercare riparo dalle inquietudini mondiali in comunità fortificate, a costruire la nostra sicurezza mentre abbandoniamo gli altri al loro destino. Questa può essere una risposta naturale all'ansia e alla paura che tutti sperimentiamo - sì, ma è una risposta inefficace, miope, perdente. E i media, nella loro rincorsa del consenso, si guardano bene dal disturbare i loro utenti e smascherare l'inganno".

Quanto incide l'esposizione ai media e a messaggi negativi sui comportamenti di chi li consuma,a cominciare dai giovanissimi?

"Non lo sappiamo. La gente si fa violenta perché vede la violenza e dal quale si ricavano esperienze e interessi. Se vogliamo cambiare il messaggio dei media occorre fare qualcosa per l'uomo e la società, più che appellarci agli operatori dei media o pensare di farli tacere per legge".

Che tipo di cultura viene espressa oggi dai media?

"Il tipo di cultura che gli utenti dei media riconoscono come proprio modo di vivere quotidiano. Talk show, serial televisivi e spot formano una sorta di specchio gigante nel quale gli spettatori guardano all'infinito le immagini ripetute della loro esperienza, le loro gioie e le ansie, i sogni e le preoccupazioni, tutto ciò che gli è familiare.

Il messaggio che ci giunge è sempre lo stesso: se fallisci, è colpa tua, se sei in difficoltà puoi contare solo sulle tue risorse per cavartela. Temo però che dare la colpa ai media per quel che invece è colpa della società sia fuorviante e rischioso".

Infine la Chiesa: come può comunicare efficacemente il suo messaggio in un contesto culturale nel quale a dettare i tempi è lo show business?

"Quando il Papa incontra migliaia di giovani, il suo messaggio raggiunge tutti senza bisogno di scendere a compromessi con le esigenze dello spettacolo.

I valori stanno in piedi da soli.

Quanto meno amore e buona volontà resteranno nel "mondo reale", tanto più avidamente noi tutti desidereremo i valori che abbiamo perduto.

La gente che desidera amore, amicizia e legami durevoli, che vuole contare sugli altri, che vuole "sentirsi a casa" in compagnia di qualsiasi essere umano - questa gente oggi è tutto fuorché "audience minoritaria"".

(Il consiglio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Sociologia Interattivo - Costruttivista, si rende disponibile alla rimozione del presente documento, qualora l'editore o l'autore considerino tale riproduzione lesiva dei loro diritti d'autore)

 


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