Il pensiero di Michael Cole

Raffaele Alessandro Panza

Michael Cole è uno dei più eminenti esponenti della psicologia culturale. Egli ha votato la sua professione di psicologo allo sviluppo delle idee di Vygotsky e, più in generale, dei contributi teorici maturati in Russia durante gli anni Venti del Novecento. La tesi avanzata dalla scuola “storico-culturale” russa argomenta che tutti i processi che appartengono allo psichico “emergono dalle attività pratiche culturalmente mediate e suscettibili di sviluppo storico” (Cole, 1996, p. 102).
Partendo da questi presupposti, Cole ha contribuito a fare della psicologia culturale una disciplina, basata sulla ricerca storico-genetica, separata dal programma scientifico naturalista, attribuendo un ruolo principe alla cultura nella genesi e nello sviluppo del pensiero umano. L’elaborazione del modello storico-genetico, nella prospettiva di Cole, prende le mosse dagli studi svolti dalla psicologia cross-culturale. L’insoddisfazione per i risultati del programma di ricerca cross-culturale promosse l’idea che l’utilizzo di paradigmi appartenenti alle scienze classico-naturalistiche fosse inadeguato al confronto di popolazioni diverse.
Nel libro Psicologia culturale (1996) Cole fornisce una serie di esempi, frutto della sua esperienza diretta come ricercatore, al fine di illustrare la “rivoluzione cognitiva” che gli permise di slittare dal modello cross-culturale a quella che lui definisce, appellandosi a Wundt, la “seconda psicologia”.
Rammentando la sua esperienza nell’Africa dell’ovest, Cole argomenta come l’uso fatto dei test di intelligenza, con l’intento di “misurare” le capacità cognitive dei Kpelle, condusse gli psicologi a sottostimare il ruolo giocato dalla cultura. Per lo psicologo californiano la cultura, con funzione di medium, dipinge differenti oggettività e soggettività che non possono essere accostate e comparate utilizzando i medesimi strumenti ed il medesimo livello di realtà impiegato da un scienziato delle “cose naturali”. A tal riguardo, con particolare riferimento alla popolazione dei Kpelle, egli argomenta: “Se valutati in base al modo in cui si eseguono i puzzle o studiano la matematica a scuola, i Kpelle appaiono stupidi: valutati, invece, in base al loro comportamento nei mercati, nei taxi e in molte altre situazione, appaiono intelligenti (più intelligenti di un visitatore americano, quanto meno). Come si può essere così stupidi e intelligenti allo stesso tempo?” (Cole, 1996, p. 75).
La conoscenza guadagnata a stretto contatto con la popolazione dei Kpelle permise a Cole di comprendere come l’approccio positivista, che caratterizza la psicologia cross-culturale, fosse uno strumento inappropriato a comprendere il ruolo giocato dalla cultura nella “vita mentale”. Di fatto, l’obiettivo principale della psicologia cross-culturale rimaneva quello di identificare leggi comportamentali che potessero, in modo predittivo, fornire termini di paragone tra differenti popolazioni. Nelle scienze sociali l’adozione di assunti positivisti ha quasi sempre significato trovare spiegazioni assolutistiche al comportamento umano, senza tenere in considerazione che l’idea di “cultura” implica necessariamente l’esistenza di “differenti realtà” che, pertanto, non possono essere colte con modelli assolutistici e teorie dogmatiche.
Lo scarto dalla psicologia cross-culturale indusse Cole a ricercare una prospettiva alternativa, sollevando così la necessità di creare due differenti psicologie (come a suo tempo aveva suggerito lo stesso Wundt). La prima avrebbe il compito di investigare i fenomeni mentali come costruzioni mentali derivate dai riflessi, dagli schemi senso-motori, facendo uso dei dati ottenuti dalla biologia, neurobiologia e fisiologia. La seconda, definita come la “seconda psicologia”, descriverebbe i processi mentali “superiori” come prodotti emergenti dalle pratiche sociali e dal linguaggio, quindi culturalmente negoziati.
I principi fondamentali della psicologia storico-culturale sono costruiti attorno tre concetti-chiave: la mediazione attraverso gli artefatti, lo sviluppo storico e l’attività pratica.
Mediazione attraverso gli artefatti. La psicologia russa suggerisce che i processi psichici umani emergono contemporaneamente alla capacità umana di modificare gli oggetti, generando in questa maniera gli artefatti. Partendo dall’analisi del concetto di “strumento”, ricavato dall’approccio storico-culturale russo, Cole definisce un artefatto “un aspetto del mondo materiale che è stato modificato durante la storia della sua incorporazione nell’azione umana rivolta ad un obiettivo. In virtù dei cambiamenti prodotti nel processo della loro creazione e uso, gli artefatti sono simultaneamente ideali (concettuali) e materiali. Sono ideali in quanto la loro forma materiale è stata modella dalla loro partecipazione alle interazioni di cui hanno prima costituito una parte e che ora mediano” (Cole, 1996, p. 110). Ogni oggetto, come un’automobile od una matita, è stato creato ed incluso nelle pratiche sociali, per una particolare ragione ed uso, acquisendo così la usa “forma ideale”, sviluppata all’interno di una società e, di conseguenza, legata ad essa. Sfruttando l’ambiente al fine dei propri scopi, gli esseri umani collocano strumenti ausiliari nelle loro azioni.
L’essere umano è differente dagli animali perché egli possiede la capacità di creare, modificare ed usare strumenti, i quali diventano i mediatori dell’interazione tra l’uomo ed il mondo. Gli artefatti possono essere considerati prodotti dell’intelligenza umana: a differenza di una tigre, gli esseri umani possono cacciare usando strumenti (per esempio archi o pistole) che, come strumenti ausiliari, hanno la funzione di agire da intermediari tra l’ambiente e l’uomo. Gli artefatti non sono solo, come la parola stessa suggerisce, strumenti “materiali”: tra loro regnano sovrani il linguaggio e la mediazione simbolica, gli “strumenti degli strumenti”, i quali assumono rilevanza primaria all’interno dell’intero processo culturale di mediazione.
Sviluppo storico. Accanto allo sviluppo degli artefatti, gli essere umani, organizzati in società, sono coinvolti all’interno di processi di reminescenza e riscoperta degli artefatti già creati e “registrati” all’interno della memoria storica di ogni società. In questo senso la cultura può essere intesa come il contenitore di tutti gli artefatti che un gruppo sociale ha collezionato durante il suo sviluppo storico. Di conseguenza ogni singola persona, nella sua identità sociale, è il risultato di cosa la precedente generazione ha fatto e lasciato in eredità alle generazioni future.
Attività pratica. L’analisi dello “psichico” deve essere fondata sulla speculazione delle attività giornaliere. Attingendo da Marx, Cole evidenzia come l’analisi dell’attività quotidiane renda possibile il superamento del dualismo tra materialismo ed idealismo, in quanto “è nell’attività che gli individui sperimentano il residuo ideale/materiale dell’attività delle generazioni precedenti” (Cole, 1996, p. 104).
Partendo da questa prospettiva, Cole considera le seguenti caratteristiche come i capisaldi teorico-epistemologici necessari per una psicologia culturale:

  1. L’azione è mediata all’interno del contesto.
  2. Una grande porzione della psicologia deve fondare ogni speculazione a partire dall’analisi storica, ontogenetica e microgenetica (definita come “metodo genetico”). 
  3. L’analisi dell’essere umano nel suo contesto deve essere basata sugli eventi quotidiani.
  4. Quella che noi chiamiamo “mente” non appartiene al singolo individuo, ma è una costruzione socio-culturale: essa è il risultato di processi di interazione tra persone.
  5. Le persone sono “agenti attivi” delle loro azioni, non passivi, pre-determinate e succubi di processi psichici da cui sarebbero manovrati come marionette senza volontà; nondimeno le situazioni, in cui gli uomini agiscono, non sono completamente determinate da essi.
  6. La psicologia culturale rigetta l’adozione di relazioni causa-effetto e stimolo-risposta, come modello scientifico per “penetrare” la natura umana, rimpiazzandole con una scienza che “ponga in rilievo la natura emergente della mente nell’attività e che riconosca un ruolo centrale all’interpretazione all’interno della propria struttura esplicativa” (Cole, 1996, p. 99).
  7. La psicologia culturale deve attingere i suoi strumenti sia dalle discipline classiche come dalle scienze sociali e biologiche.

 


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