Dewey Fu alfiere dell’empirismo: conoscere è adattarsi alla Natura Oltre che filosofo, pedagogo. Contro la scuola nozionistica

Editoriale

Il Tempo 5 Agosto 2001

È stato Bertrand Russell a definire John Dewey come il più importante filosofo americano del Ventesimo secolo. Per l'originalità e la vastità della sua riflessione - che spazia dalla teoria della conoscenza all'etica, dalla teoria politica alla pedagogia - Dewey può essere infatti considerato come l'espressione più compiuta di quella tradizione empirista e pragmatista che ha sempre rappresentato magna pars della filosofia americana. Nei quasi settant'anni di intensa attività intellettuale, John Dewey elabora il suo "strumentalismo" con il quale egli pone l'"esperienza" umana al centro dell'indagine filosofica. La filosofia, a suo avviso, deve essere innanzitutto riflessione sull'"esperienza", cioè sul quel complesso processo storico mediante il quale l'uomo interagisce con la natura, adattandosi all'ambiente. Il filosofo ha il grande compito di scandagliare questo processo adattivo in tutte le sue dimensione, conoscitiva, etica, politica. L'azione umana, infatti, è necessariamente interazione con gli altri individui, e l'esperienza umana è necessariamente "transazione con la natura", un processo attraverso cui gli individui esplorano, modificano e conferiscono significati all'ambiente esterno.
Mediante la scienza, la tecnologia, l'etica, la politica, la pedagogia, ecc., i singoli tentano di autorealizzarsi umanizzando la natura, e lo fanno risolvendo problemi, o tentando di risolverli, attraverso una conoscenza che essendo necessariamente limitata e fallibile conferisce alle vicende umane un carattere intrinsecamente "precario", "incerto" e "rischioso". Questa evoluzione naturale è un processo lato sensu conoscitivo, mediante il quale la comunità umana esplora l'ignoto inciampando in situazioni problematiche e tentando di venirne fuori mediante idee (teorie scientifiche, valori morali, istituzioni sociali, giuridiche e politiche).
E l'"indagine", per Dewey, è proprio questa continua ricerca di soluzioni per passare, nella scienza come nella vita sociale, da stadi indeterminati, disordinati e insicuri a stadi determinati, organizzati, che riducono l'imprevisto; i quali sono l'esito delle capacità conoscitive e costruttive dei singoli e al tempo stesso moltiplicano le loro opportunità di realizzazione.
La filosofia, quindi, non deve essere consolatoria, deresponsabilizzante; non deve esaltare acriticamente le "magnifiche sorti e progressive" o, al contrario, demonizzare il divenire, ma deve guardare in faccia l'esperienza umana per quello che è, con la sua ineliminabile carica di precarietà, di imperfezione ed anche di tragedia, ma senza mai cedere al pessimismo. Lungi dal cercare fundamenta inconcussa , la riflessione filosofica deve essere "nature oriented", cioè immediatamente operativa, legata alla risoluzione dei più importanti problemi che via via l'umanità è chiamata ad affrontare. "La filosofia che rinuncia al suo monopolio, in fondo sterile, di rapporti con la realtà ultima e assoluta - scrive Dewey - troverà un fattore di compensazione nel gettar luce sulle forze morali che muovono il genere umano e nel contribuire alle aspirazioni dell'uomo a raggiungere una felicità più ordinata e intelligente". Il pensiero filosofico deve essere, in sostanza, una critica della ragione incerta, la quale, evidenziando i limiti delle conoscenze umane, assegni il giusto posto all'"intelligenza", unico faro in grado di illuminare l'esperienza nella sua realizzazione storica.
E proprio all'intelligenza guardava non senza ottimismo Dewey - soprattutto nei bui anni Trenta - come alla più preziosa risorsa dell'umanità, una risorsa da coltivare, da potenziare e da educare alla soluzione dei problemi.
E qui nasce la grande riflessione pedagogica Deweyana, che farà del filosofo americano uno dei più accreditati pedagogisti del secolo. La scuola, per Dewey, non deve inculcare sistemi di valori, non deve scadere nel dogmatismo, né basarsi su un insegnamento libresco e nozionistico; deve essere invece una "scuola aperta", aperta all'ambiente sociale che la circonda e soprattutto ai suoi problemi. Una scuola che sviluppi le individualità e che favorisca la socializzazione cooperativa di quelli che saranno i futuri cittadini. Essa deve essere quindi non un luogo di trasmissione di nozioni bensì un'occasione per apprendere un metodo, il metodo del dialogo e della critica, il quale deve prevalere su ogni gerarchia sociale e deve sviluppare al meglio quell'intelligenza che guida l'uomo nel labirinto delle circostanze problematiche.
Insegnando a risolvere problemi la scuola insegna a vivere; vivere è infatti "cercare", cercare nuove soluzioni per vecchi problemi o nuove soluzioni per nuovi problemi. La vita è un'"indagine" senza fine alla ricerca di "verità" (scientifiche, politiche, morali, di senso comune) sempre più utili per vivere meglio. Così, potenziando quell'aspetto pratico-operativo dell'intelligenza umana, la pedagogia - per Dewey - assolve alla "suprema funzione morale della società".
Quello del "dialogo" tra individui che si rispettano e si riconoscono come interlocutori che accrescono le convinzioni condivise, o - come diremmo oggi dopo l'epistemologia fallibilista del Ventesimo secolo - della "discussione critica", è un metodo generale che vale in ogni campo dell'agire umano.
Se nessuno ha accesso a fonti privilegiate di verità, se ogni individuo è antropologicamente "gettato" in una condizione di ignoranza relativa, allora quella del confronto critico è l'unica via per scovare i nostri errori e per far progredire in quelle che J. S. Mill definiva le nostre mezze verità, nella scienza come nella vita quotidiana, ed anche in politica.
Tra i più influenti pensatori politici americani del secolo scorso, Dewey è stato uno dei più acuti teorici e dei più impegnati difensori dei regimi democratici. Per Dewey la democrazia è "qualcosa di più di una forma di governo"; essa "è prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza comunicativa e congiunta". La democrazia è una comunità di dialoganti che cooperano alla soluzione dei problemi discutendo criticamente, e il dialogo sarà tanto più fecondo per la ricerca di soluzioni efficaci quanto più sono tutelate e valorizzate le individualità - difese, ove occorra, anche dalla stessa volontà della maggioranza.
La discussione democratica dunque presuppone ed arricchisce le diversità, ma si inaridisce laddove le differenze diventano forti disuguaglianze sociali, che devono essere invece combattute da una democrazia autentica, che sia basata sulla solidarietà e non sul privilegio. Per queste sue caratteristiche la democrazia è un dibattito senza fine, tanto più efficace quanto più i cittadini sono abituati ad ascoltare e a rispettare l'altro, e ad essere disposti a riconoscere i propri errori. Un dibattito dove non c'è posto per punti di vista privilegiati e per contrasti non sanabili con la discussione critica e dove il dialogo è riconosciuto e praticato come il solo mezzo legittimo di integrazione nella sfera pubblica. La democrazia, dunque, "non è un capitale di cui possiamo vivere di rendita", ma un conquista, scrive Dewey alla vigilia della seconda guerra mondiale, che deve essere rinnovata da ogni generazione, e l'"educazione è la sua allevatrice".
Ma quello democratico non è solo un processo senza fine, ma è anche un processo ateleologico, cioè non diretto ad un fine ultimo prestabilito da una autorità suprema. Esso consiste invece nella competizione tra la maggior quantità possibile di valori differenti (e quindi di progetti di vita individuali) che non si possono fondare razionalmente, essendo "instabili come la forma delle nuvole". Una competizione che deve mirare a ridurre gradualmente i mali sociali e ad incrementare progressivamente le libertà individuali, condizione per un progresso civile e conoscitivo.
Quella democratica è dunque una "società che si pianifica da sé", liberando "l'intelligenza attraverso la forma più vasta di interscambio cooperativo". Nemico di ogni assolutismo, e quindi di ogni utopismo e presunzione razionalistica, Dewey oppone la "società che si autopianifica" alla "società pianificata", la quale mortifica l'intelligenza individuale ed è caratterizzata da "disegni finali imposti dall'alto e che si affidano alla forza fisica e psicologica per ottenere che ad esse ci si conformi".