John Dewey: Per un'etica sperimentale

Hilary Putnam

Il Sole 24 Ore, 30 Aprile 2000

La lezione di Dewey: il suo antidogmatismo in epistemologia rispecchia quello della sua riflessione morale

Una meravigliose presentazione della propria filosofia, e anche della sua filosofia morale, John Dewey ce la fornisce in La ricerca della certezza, dove raccoglie le Gifford Lectures. Una delle sue cose più belle, almeno per me, è l'analogia tra i paraocchi dei filosofi tradizionali quando parlano di epistemologia e i loro paraocchi quando parlano di etica. Nel caso dell'empirismo, l'analogia è sorprendente. Che il razionalismo - secondo il quale importanti verità sul cosmo e su come dovremmo viverci sarebbero conoscibili a priori - venga criticato dal pragmatismo non è per niente sorprendente. Ma Dewey non intende solo attaccare il razionalismo, vuole distinguersi anche dall'empirismo tradizionale. E qui, ha da dire cose inaspettate.
Una di queste è che i difetti dell'empirismo non sono poi così diversi da quelli del razionalismo (certo, Hegel aveva già detto qualcosa del genere, e va ricordato che Dewey ha debuttato nella carriera filosofica da idealista). Scrive Dewey: "Così come la teoria delle sensazioni trascura nell'indagine il ruolo funzionale e lo status ipotetico delle qualità sensibili, così il razionalismo pone l'utilità delle concezioni come se fosse una questione fissa e indipendente nell'orientare l'indagine per risolvere particolari problemi".
Per il razionalismo, si sa, la forma generale delle spiegazioni scientifiche si può conoscere a priori. Stando a Cartesio conosciamo a priori le leggi della geometria e i principi fondamentali della meccanica, e Kant tentò perfino una "deduzione trascendentale" della teoria della gravità di Newton. E lo stesso accade all'empirismo che sottintende addirittura la conoscenza a priori di tutti i dati empirici. Da Locke e Berkeley a Hume ed Ernst Mach, gli empiristi hanno ritenuto che tutti i dati empirici sono "sensazioni", intese come un dato non concettualizzato sul quale verificare la conoscenza putativa.
Già William James aveva chiarito che ogni esperienza percettiva ha aspetti concettuali e non concettuali e che era vano il tentativo dì dividere in parti distinte l'esperienza, la somma di "sensazioni e dì idee che partecipano alla percezione e al riconoscimento di un oggetto materiale". Sulla scia di James, Dewey sostiene che quando creiamo nuovi concetti per l'osservazione istituiamo nuovi dati.
La fisica moderna - e non solo la fisica - gli hanno dato clamorosamente ragione: uno scienziato può affermare che sta osservando la collisione di un protone con un nucleo, un virus sotto un microscopio elettronico, un gene o un buco nero?. Né la forma delle spiegazioni possibili né quella dei dati possibili può essere fissata in anticipo, una volta per tutte.
Come James, Dewey non nega l'esistenza di un substrato preconcettuale ma dice che in assenza di una giusta concettualizzazione, la sensazione è problematica. Invece dì costituire dati, prove o evidenza, pone un problema che va risolto. "Il recente riconoscimento che i concetti con cui pensiamo oggetti scientifici non derivano né dai sensi né da idee a priori ha una forza logica e filosofica. Le qualità sensibili sono qualcosa da conoscere, una sfida alla conoscenza, pongono problemi da indagare. Infatti l'attività o il pensiero è un agire orientato, un fare che modifica le condizioni in cui gli oggetti si hanno e li dispone in modo nuovo".
Dewey spiega poi che la formazione del "concetti con i quali pensiamo gli oggetti scientifici" è inseparabile dalla scoperta di operazioni da effettuare con questi oggetti e dalle relazioni tra di essi. "Queste operazioni sono state continuamente affinate ed elaborate nel corso della storia umana, anche se soltanto negli ultimi secoli si è considerato che il pensiero controllato e il suo risultare in autentica conoscenza sono legati alla selezione e alla determinazione di tali operazioni". Poco prima, nel capitolo intitolato "La sede dell'autorità intellettuale", aveva scritto: "Come sarebbe stata diversa la storia della teoria della conoscenza, o epistemologia, se dall'inizio le qualità in questione non fossero state chiamate "dati" bensì "presi"... In quanto dati, vengono selezionati all'interno dell'oggetto globale da cui la conoscenza trae impeto; sono discriminati con uno scopo, quello di consentire ai segni o all'evidenza di definire e di localizzare un problema e quindi di fornire un indizio per la sua soluzione".
Un corollario della sua critica è che razionalismo ed empirismo non riescono a vedere fino a che punto le scoperte scientifiche possano essere radicalmente nuove, e che la novità può riguardare indifferentemente la forma di quelli che riteniamo i principi generali (geometria, causalità deterministica, azione diretta), la gamma di quelle che riteniamo le qualità osservabili delle cose, e i concetti stessi di ciò che costituisce un oggetto scientifico. Contro entrambe le scuole di pensiero, Dewey ci invita ad ammettere "lo status ipotetico di tutti i dati e di tutte le premesse".
Una situazione analoga si presenta in etica. "La costruzione del bene", l'ultimo capitolo della Ricerca della certezza, descrive la situazione delle filosofie morali, e la loro sorprendente analogia con quella dell'epistemologia. E' evidente che l'apriorismo è presente nell'etica così come nella cosmologia filosofica, ma perché l'empirismo dovrebbe creare un problema? Qual'è l'errore nel quale Dewey ravvisa 1'analogia con la confusione che gli empiristi fanno tra qualità sensibili, non concettualizzate, e dati?
Già nel 1908, all'epoca della pubblicazione dell'Etica scritta insieme a J. H. Tufts, Dewey giudicava la versione dell'utilitarismo data da Bentham un fallimento esemplare dell'empirismo critico, priva com'era di una concezione adeguata di cosa significhi nell'etica essere un empirista à la Dewey, cioè sperimentale. Nella Ricerca della certezza non cita il nome di Bentham, ma i difetti che elenca sono chiaramente quelli dell'utilitarismo.
Così come l'empirismo classico confonde sensazioni non concettualizzate e dati mentre sta di fatto che meno sappiamo concettualizzare una sensazione e più essa rappresenta un problema, più uno stimolo per l'indagine che non un'evidenza, l'utilitarismo confonde piaceri e valori, i quali dovrebbero essere perseguiti di per sé. Per Dewey invece, meno capiamo un piacere, meno sappiamo di ciò che lo fa esistere e dei suoi possibili effetti futuri (e delle sue relazioni con altri piaceri e disagi attuali ed eventuali, e delle loro cause ed effetti) e più questo piacere rappresenta un problema e uno stimolo al "Pensiero operativo".
"A proposito dell'origine e della verifica del pensiero - scrive Dewey -, la teoria delle sensazioni è stata talmente incapace di rendere conto del nesso tra gli oggetti osservati, del loro ordine e della loro regolarità, da suscitare per reazione la teoria trascendentale delle idee a priori. Allo stesso modo, una dottrina che identifichi il semplice fatto dell'essere apprezzato con l'oggetto apprezzato è talmente incapace di orientare la condotta, laddove è necessario, da evocare immediatamente l'affermazione dell'esistenza di valori eternamente in Essere, i quali sono la misura di ogni giudizio e il fine obbligato di ogni azione. A meno di non ricorrere al pensiero operativo, si continua a oscillare tra una teoria che, pur di salvare l'oggettività dei giudizi di valore, li isola dall'esperienza e dalla natura, e una teoria che pur di salvarne il significato umano, li riduce a pure enunciati sui nostri sentimenti".
Per Dewey quindi, bisognava compiere l'opera che a suo parere l'utilitarismo non aveva saputo compiere, nonostante il famoso tentativo di Mill: distinguere tra il desiderato e il desiderabile o, nei termini che preferiva spesso usare. tra "apprezzato" e "apprezzabile" (valued and valuable). Occorreva distinguere tra ciò che viene apprezzato perché evoca una sensazione di piacere o di godimento e ciò che è stato valutato e studiato criticamente. Soltanto una volta acquisita la conoscenza delle cause, degli effetti e delle relazioni più rilevanti, ciò che è apprezzato diventa apprezzabile, e ciò che soddisfa diventa soddisfacente.
"Dire che una cosa soddisfa significa riferire una finalità isolata. Dire che è soddisfacente significa definirla nelle sue connessioni e interazioni. Il fatto che ci piaccia o ci risulti subito congeniale pone un problema di giudizio.Come misurare la soddisfazione? E' un valore oppure no? E' preziosa e cara e deve essere goduta? Non soltanto i moralisti più severi ma la stessa esperienza quotidiana ci dice che trovare soddisfazione in una cosa può essere un avvertimento, un'ingiunzione a stare attenti alle conseguenze. Dichiarare che una cosa è soddisfacente significa asserire che se ne possono specificare le condizioni. un giudizio e una predizione, infatti: quella cosa andrà bene e continuerà a servire... E' l'asserzione di una conseguenza che la cosa istituirà attivamente. Che ci soddisfi è il contenuto di un giudizio di fatto; che sia soddisfacente è un giudizio, una valutazione, un apprezzamento. Denota un atteggiamento da adottare, quello di sforzarsi di perpetuare e di assicurare quella cosa".