La devianza minorile e il paradigma sociologico. Il contributo di David Matza

Francesco Giacca

1. Per una introduzione
La figura di David Matza occupa senza alcun dubbio un posto di rilievo nel settore della devianza adolescenziale e, anche se il suo lavoro appare difficilmente catalogabile, egli è molto vicino a quel gruppo di studiosi, chiamati generalmente labeling theorists, i cui principali esponenti sono Lemert, Becker, Cicourel e Goffman.
Ovviamente, essi presi singolarmente evidenziano delle notevoli differenze di approccio, anche se uniti sotto una duplice bandiera, frutto degli studi di Lemert: la devianza primaria e la devianza secondaria.
Per devianza primaria intendiamo un "allontanamento più o meno temporaneo, più o meno marginale, eseguito con più o meno determinazione da certi valori, norme o costumi dominanti nella società" (Matza, 1969).
Da tali atti nessuno è escluso, in effetti tutti ne compiamo occasionalmente e durante tutto l’arco della vita.
Al contrario, più rilevante è la devianza secondaria, che "consegue all’etichettamento (labeling) di una persona come deviante da parte da agenzie di controllo sociale" (Ibidem, 1969, pp. 17-31).
Le due tipologie di devianza non necessariamente coincidono; in altri termini possono apparire come due fenomeni diversi, poiché non tutti i devianti primari sono definiti devianti dalle autorità, mentre alcuni devianti secondari non sono affatto devianti primari.
Da questa semplice distinzione, i labeling theorists traggono tre importanti riflessioni:
o Le analisi strutturali compiute sulla base di diversi tassi di devianza sono, nel migliore dei casi inesatte; inesatte nel senso che ciò che viene comparato sono i tassi di devianza ufficiali, che possono non corrispondere al volume reale (primario) della devianza;
o La seconda riflessione è che il reale problema sociologico non consiste nello studio dell’ammontare della devianza, ma il modo in cui le agenzie di controllo creano esse stesse la devianza;
o Un ultima riflessione è che lo scopo primario della ricerca dovrebbe essere l’analisi della reazione sociale, cioè dell’esclusione, del confinamento e della riorganizzazione simbolica del self del deviante.
Intorno agli anni ’70, però, la labeling theory, inizialmente considerata come una vera e propria forza innovatrice, iniziò a perdere il suo fascino.
Essa in effetti era divenuta quasi altrettanto deterministica della teoria strutturale che aveva all’inizio attaccato.
A ciò si aggiungeva l’abbandono prematuro della ricerca delle cause strutturali della devianza, che la riduceva di frequente ad operare nello spazio di un ragionamento apparentemente logico, ma in realtà falso e capzioso (per esempio, "è deviante chi è definito come tale").
In effetti, questo stato di cose andava ad adottare una prospettiva, lontana dal contributo e legame creato da Durkheim, tra analisi della devianza ed analisi della società globale.
David Matza, pur ispirandosi in gran parte alla tradizione dei labeling theorists (denominati anche neo-chicagoans), da un lato rivendica la tradizione della psicologia sociale Meadiana e la grande importanza che essa attribuiva alla coscienza dell’attore, dall’altro elaborando una prospettiva naturalistica, il cui fondamentale assunto metodologico consiste nella fedeltà alla complessità del fenomeno studiato senza cedimenti a tentazioni riduttive.

2. David Matza e la seconda generazione della Scuola di Chicago
La Scuola di Chicago, ebbe come riferimenti fondamentali uomini come H.S. Becker e E. Lemert.
Essa era già conosciuta negli anni cinquanta, ma si diffuse soprattutto tra il 1962 e il 1964, in una forma diversificata, chiamata Nuova Scuola di Chicago, da cui il nome dei suoi esponenti, i cosiddetti Neochicagoans.
La filosofia che è alla radice della Scuola di Chicago, nuova generazione, è data dal concetto di "naturalismo", termine che si ritrova in Aristotele e Spinoza, ma che qui è inteso come "generale" della Scuola di Chicago e come "classico" se parliamo del pragmatismo di G. Santayana (D’Agostino, 1984).
In effetti, alcuni hanno ritenuto distinguere il naturalismo in due parti: la prima si riferisce alle componenti essenziali che si riferiscono alla fedeltà del fenomeno, mentre la seconda a quelle accidentali che consistono nel ricorso alle metodologie delle scienze della natura.
Nella visione di Matza " il naturalismo, obbliga nei confronti dei fenomeni e della loro natura, non vincola alla scienza o a qualsiasi altro sistema di norme" (Matza, 1969, 17).
Questa definizione, varca quell’idea che considera il naturalismo come la filosofia che si basa sui risultati e sui metodi delle scienze: "…tutto ciò che esiste o accade può essere spiegato con metodi che, anche se esemplificati paradigmaticamente nelle scienze naturali, sono continui da un dominio all’altro della scienza" (D’Agostino, 1984).
In tal senso, tutto è riassumibile in termini scientifici, anche se invertendo le proposizioni tutto si trasforma da naturalismo ad uno scientismo di tipo positivistico: "metodi che, anche se continui da un dominio all’altro, sono esemplificati dalle scienze naturali" (Ibidem, 1984, pp. 30-33).
Questa tensione esistente nell’ambito delle scienze sociali, si risolverà quando il naturalismo sceglierà la via dell’impostazione soggettiva, della fedeltà al mondo sociale umano: " l’uomo partecipa ad una attività significante. Egli crea la propria realtà e quella del mondo attorno a lui, attivamente e strenuamente. L’uomo naturalmente, non soprannaturalmente, trascende le sfere esistenziali in cui è facile applicare i concetti di causa, di forza e di reattività. Quindi non si possono considerare naturalistici né una visione che concepisce l’uomo come oggetto, né dei metodi che sondano il comportamento umano senza occuparsi del significato di tale comportamento. Tali posizioni e metodi sono esattamente l’opposto del naturalismo, poiché interferiscono a priori nel fenomeno da studiare. Il naturalismo, applicato allo studio dell’uomo, non ha altra scelta che concepire l’uomo come soggetto, precisamente perché il naturalismo rivendica fedeltà al mondo empirico" (Matza, 1969; MacRae, 1974).

3. La sociologia della devianza tra vecchi e nuovi paradigmi: riflessioni e attualità del lavoro teorico di David Matza
L’analisi di David Matza, si fonda sulla premessa che occorre studiare il significato del comportamento dall’interno della realtà quotidiana dell’attore sociale.
Egli quindi propone l’adozione di una prospettiva "naturalistica", che fornisca una descrizione accurata dei fenomeni. Ciò permette di distaccarsi dalla rappresentazione dei devianti come spinti alla devianza da forze sociali al di fuori del loro controllo. Diviene così, possibile identificare gli scopi, le motivazioni e le paure che informano l’azione deviante.
La prima osservazione "naturalistica" di Matza è che i devianti non commettono reati così disinvoltamente come si tende a credere, al contrario, essi spesso avvertono senso di colpa e vergogna per il loro comportamento. Ciò farebbe riflettere sul fatto che i devianti sono sensibili al codice normativo della società anche quando commettono reati.
Questo accade per due motivi:
1. intanto, le norme sociali sono ambigue, dal momento che promuovono alcuni comportamenti trasgressivi (es. il divertimento) e, allo stesso tempo, li vietano.
2. il deviante dispone di diverse strategie psicologiche per "neutralizzare" la gravità del proprio comportamento, come ad esempio la negazione di responsabilità, asserire di non aver provocato danno a nessuno, screditare la vittima e rinfacciare le colpe a chi gli contesta il reato commesso.
Conseguentemente, piuttosto che alle culture devianti esterne a quella dominante, occorre rivolgere l’attenzione alla devianza nascosta di quest’ultima. Una volta riconosciutane l’esistenza, per diventare un deviante, non c’è più bisogno di allontanarsi dalla società dominante, perché ci si collocherà fra la conformità e la devianza normative, senza dedicarsi né all’una né all’altra.
In pratica, la commissione di un reato durerà solo un breve istante, cui seguirà immediatamente la riconferma della propria dedizione all’ordine sociale tramite l’impiego delle "strategie di neutralizzazione" (Sykes, Matza, 1957). In particolare, questa concettualizzazione del mondo deviante è riassunta nel concetto di "deriva", che implica la convergenza fra la cultura del delinquente e quella dell’onesto.
Tuttavia, non sono solo i devianti a rivendicare la propria pericolosità sociale. L’ambiguità delle norme sociali, permette anche ai pochi puritani residui di fabbricarsi un falso passato di trasgressioni o di gonfiare i loro attuali reati minimi fino a fare loro assumere uno status di pericolosità sociale.
Naturalmente, anche la teoria di Matza è stata oggetto di critiche, fino al punto che l’autore stesso l’ha definita una mescolanza confusa di opinioni (Weis, 1971).
L’esistenza di senso di colpa negli adolescenti devianti ha suscitato perplessità (Hindelang, 1970; Hirschi, 1969), mentre considerare le "strategie di neutralizzazione" finalizzate alla riconferma della dedizione del deviante all’ordine sociale e non alla critica di esso, esclude la possibilità che la devianza possa rappresentare un mezzo di critica o antagonismo sociale. Inoltre, la nozione di "deriva" è qualcosa a metà strada fra determinismo e libero arbitrio, a considerare il modo in cui è spiegato il processo di produzione e rivendicazione degli atti devianti (Taylor, Walton, Young, 1973).
Tuttavia, il lavoro teorico di Matza spicca sicuramente nell’ambito della sociologia della devianza e conserva intatto il proprio valore sotto tre aspetti:
o il primo si riferisce al fatto che, l’attenzione dai processi che generano le predisposizioni comportamentali dell’individuo, si sposta al contesto microsociale dove gli atti di devianza vengono compiuti.
o Secondo, ci si preoccupa di considerare la questione dal punto di vista dell’individuo, cioè si afferma che le cognizioni sul mondo influenzano il comportamento, anche a prescindere dalla loro correttezza.
o Infine, si impiega lo stesso modello processuale per spiegare ogni tipo di comportamento, deviante o meno.
Concludendo, questi tre aspetti, uniti alle caratteristiche della teoria di Matza, svelano una prospettiva concettuale, fino ad allora mai considerata e influenzata dalla teoria della società di massa.

Riferimenti bibliografici

D’Agostino, F. (1984): Il codice deviante. La costruzione simbolica della devianza, ed. Armando Armando, Roma.
De Leo, G. (1998) : La devianza minorile, Carocci ed., Roma.
Emler, N., Reicher, S. (1995): Adolescence and Delinquency, Oxford, Blackwell; trad.it. Adolescenti e devianza, Bologna, Il Mulino, 2000.
Hindelang, M.J. (1970): The commitment of delinquents to their misdeeds: Do delinquents drift?, in "Social Problems", 17, pp. 502-509.
Hirschi, T. (1969): Causes of delinquency, Berkeley, University of California Press.
MacRae, D.G. (1974): Weber, Fontana Collins, p.63.
Matza, D.(1969): Becoming Deviant, Englewood Cliffs, N.J., Prentice Hall; trad.it. Come si diventa devianti, Bologna, Il Mulino, 1976.
Sykes, G., Matza, D. (1957): Techniques of Neutralization: a Theory of Delinquency, in "American Sociological Review", 22(6), pp. 664-670.
Taylor, I., Walton, P., Young, J. (1973): The New Criminology, London, Hutchinson.
Weis, J.G. (1971): Dialogue with David Matza, in "Issues in Criminology", 6, pp. 33-53.