Il pensiero di Hugh 'Bud' Mehan

Raffaele Alessandro Panza

Nell’attuale panorama delle spiegazioni fornite alle iniquità educative, uno degli approcci più fecondi è il contributo avanzato da Hugh Mehan. Gli studi e le ricerche del sociologo californiano si sviluppano a partire dal costruzionismo sociale.
La caratterizzazione fatta da Mehan delle iniquità educative si fonda su tre idee cardine:

  1. le strutture sociali e cognitive sono costruite nell’interazione;
  2. il comportamento umano è contesto-specifico;
  3. l’apprendimento è costruito attraverso l’assistenza guidata.

Per ciò che concerne il primo punto, l’autore sottolinea come tutti i fenomeni sociali e le strutture cognitive non siano collocate in pianta stabile all’interno dei singoli esseri umani, ma siano generate nelle situazioni che vedono impegnati gli individui in constanti processi di negoziazione (e pertanto interazione) simbolica.
Scartando un approccio focalizzato sulla persona e trasferendo l’attenzione sui processi implicati nell’interazione faccia-a-faccia, l’autore indaga le pratiche costitutive che “costruiscono” e possono “de-costruire” l’iniquità scolastica. Egli scrive: “Le strutture cognitive significative, come “l’intelligenza”, “l’abilità” e “l’inabilità”, come anche quelle sociali, quali l’identità ed i gradini percorsi sulla scala della carriera educativa, sono mutuamente costruite in situazioni localmente organizzate.” (Mehan, 1998, p. 248).
Il processo costante di organizzazione e ri-organizzazione dell’identità degli studenti (che, ad esempio, incorpora anche la costruzione sociale di abilità come l’attitudine a particolari materie), non si realizza all’interno dell’individuo, ma nei contesti sociali in cui è ininterrottamente “contrattata”. Pertanto, nell’ambito degli studi sull’educazione, la produzione di etichette discorsive che designano le capacità o le inettitudini degli studenti è un fenomeno che appartiene alla situazione stessa, in accordo con i ruoli assegnati agli attori sociali. Ad esempio, gli studi di Mehan hanno mostrato come gli insegnanti e gli studenti agiscano simultaneamente, producendo tutte le catene di significati che rendono oggettiva l’esistenza di diversi risultati accademici e delle abilità scolastiche dei bambini, anche sulla base della loro provenienza da famiglie con reddito, etnia o linguaggio differenti. Le sue ricerche non sono più incentrate sugli studenti stessi, non più sugli insegnanti o sulle famiglie, ma su tutti i processi che designano questi “attori” al loro ruolo contestuale. Tutti i “fatti sociali”, analizzati da un punto di vista interazionista, divengono realtà dinamiche, riflessive della relazione che lega due o più individui in uno specifico contesto. Pertanto, un evento sociale diviene una realtà transitoria, che può cambiare relativamente al contesto situazionale.
Strettamente connessa all’idea che tutte le realtà “nascono” all’interno di una forma di interazione, è la concezione del comportamento umano come contesto-specifico. Una consistente porzione delle teorie che hanno si sono sforzate di spiegare l’iniquità negli ambienti educativi non hanno considerato l’agire umano come strettamente vincolato alla rappresentazione inscenata (Goffman, 1959), ma hanno attributo agli studenti tratti e disposizioni isolate dal contesto interattivo e relazionale. A riguardo, Mehan argomenta: “…una pletora di studi furono condotti per dimostrare che i bambini che erano fatti apparire stupidi durante gli esperimenti, nei test e negli uffici dei consulenti, potevano essere ingegnosi, verbalmente espressivi, e logici nel campo da gioco, dal droghiere o a cena” (Mehan, 1998, p. 249). In altre parole, esaminare il comportamento circoscrivendolo al contesto in cui si realizza, implica scoprire che a volte la vita dei bambini (soprattutto quelli che sono considerati “deprivati culturalmente”) è complessa ed ingegnosa, se solo si fosse in grado di riconoscere contesti differenti in cui cercare.   
Una parte del lavoro del prof. Mehan è dedicata allo studio del modo in cui le in equità educative sono socialmente costruite e possono essere pertanto de-costruite.
Una delle proposte teoriche suggerite dagli studi e dalla ricerche condotte di Mehan è la “teoria della discontinuità culturale”. Questa offerta teorica suggerisce che “differenza di richieste tra classi scolastiche e altri contesti sono causa di diverse difficoltà, specialmente per gli studenti provenienti dai ceti più bassi e da minoranze linguistiche” (Mehan, 1998, p. 251).
Mehan illustra la teoria della discontinuità culturale partendo dalla definizione della parola “classe” così come intesa nell’analisi interazionista. L’autore descrive la classe, o meglio la cultura della classe, come un contesto situazionale governato da norme, ruoli e regole convenzionalmente stabilite, implicitamente acquisite, tacitamente accordate e mantenute cooperativamente (Mehan, 1998). Partendo da quest’assunzione di base, la tesi della discontinuità culturale avanzi l’ipotesi che il linguaggio usato da bambini cresciuti in famiglie di ceto medio concordi con le richieste che la classe esige e ricompensa. Dall’altro lato, il sistema scolastico non riconosce e de-valorizza il linguaggio impiegato da studenti cresciuti in famiglie di basso reddito (o in minoranze etniche). Per di più, differentemente dalla tesi della deprivazione culturale, la prospettiva della discontinuità cultuale non considera la lingua parlata dalle minoranze qualitativamente inferiore, ma una “differente” struttura comunicativa, non lasciando addito a forme comparative per le quali il linguaggio di studenti provenienti da famiglie benestanti è assunto come migliore di altri. Al contrario, l’attenzione dei teorici della discontinuità culturale si sposta sugli aspetti linguistici e sociali delle minoranze etniche che non soddisfano le tacite aspettative del sistema scolastico.
Tuttavia, anche se la teoria della discontinuità culturale è gravida di punti forza, questa rischia di ricondurre tutte le spiegazioni dell’iniquità scolastica ad un problema di comunicazione, rischiando di ricadere nella trappola deprivazionista della teoria della deprivazione culturale, sottostimando tutti i vincoli sociali che contribuiscono ad edificare la disparità di risultati scolastici.
Infatti, secondo Mehan le ineguaglianze educative vengono realizzate e rafforzate nelle stesse strutture a cui spesso viene attribuito un certo carattere di neutralità. Ad esempio, la scuola non è più intesa come un “edificio fisico” ma diviene un’ “istituzione simbolica”, all’interno della quale si realizzano tutti quei particolari rituali che costruiscono i fatti sociali, ivi inclusi i diversi risultati tra bambini provenienti da differenti tessuti sociali.
Un’adeguata analisi delle iniquità educative dovrebbe sempre considerare tutte le pratiche sociali ed i processi culturali – come l’etnia, le storie educative, le relazioni scuola-famiglia e le associazioni di pari – esaminandoli come meccanismi interattivi dai quali la disparità di risultati è generata. Sostituendo lo studio del singolo dallo studente con quello degli aspetti interattivi che si realizzano negli ambiti educativi, Mehan approfondisce la conoscenza dei processi sociali, di natura costitutiva, che, nella loro azione mediatrice, contribuiscono a formare l’identità sociale dello studente “culturalmente deprivato”.
Le conseguenze  prodotte dagli studi di Mehan per spiegare l’iniquità, sul piano teorico come su quello della ricerca, possono essere così sintetizzate:

  1. l’analisi è incentrata non sull’individuo ma sull’interazione tra individui;
  2. l’attenzione è focalizzata su tutti i contesti sociali e le pratiche costitutive che generano e riproducono l’iniquità a scuola (processi di mediazione culturale);
  3. gli “attori umani” sono redenti dal loro ruolo passivo, per il quale erano considerati come formati unicamente dalle domande del capitale etno-economico. Essi diventano “autori” della loro vita, rispondendo attivamente alle circostanze della loro quotidianità.

Phoenix