Rorty, il vero inventore del pensiero debole

Bruno Gravagnuolo

“L'Unità” 13 Giugno 2007.

Rorty, ovvero tutto comincia e finisce nel linguaggio. Ma a dirla tutta, non finisce lì. Bizzarro paradosso quello della filosofia dello studioso newyorkese, uno dei massimi filosofi Usa, che se ne è andato venerdì scorso nella sua casa di Paolo Alto in California, dopo lunga malattia. Bizzarro, perché in bilico su una contraddizione che veniva da tutta la sua biografia intellettuale. Da un lato Rorty era figlio degli “analitici” americani, Austin Strawson e poi Quine, nonché “fratello” di Davidson, Dummett e MacIntyre, di cui era coetaneo. Dall’altro aveva introdotto con forza nel panorama Usa umori tutt’altro che “analitici”: il secondo Wittgenstein, Heidegger, Derrida, Gadamer. Perciò il linguaggio, e i suoi sortilegi logici. Ma anche il rifiuto di assolutizzarlo come un sostituto dell’Essere della metafisica. E il bisogno di guardare altrove, alle emozioni, all’”empatia”, alla “contingenza” delle situazioni. Realtà che il linguaggio, come teorizza Davidson, non è in grado di spiegare, ma al più di “rivelare”.
Insomma Richard Rorty, 75 anni e a modo suo leggendario da tempo tra America e Europa, non era un filosofo sistematico, e nemmeno un filosofo tutto filosofo. Anzi, a dire il vero la sua filosofia aspirava ad uscire dalla filosofia, e a consegnare il senso della vita e dell’“ente” (parola che detestava) alla non filosofia. Ai diversi generi letterari, scienza inclusa, di cui la filosofia era a suo dire un esempio tra i tanti.
Giovane e spigliato si fa notare a Yale fin dagli anni sessanta, poco più che trentenne, a picconare gli analitici duri e i neopositivisti. Recupera da un lato Peirce e la sua teoria dell’“azione semiologica”, e dall’altro il pragmatismo di Dewey, gran padre della democrazia americana vista da sinistra. Va oltre però, poiché l’attacco è alla realtà oggettiva. All’idea di una “mente impersonale” del conoscere. E al concetto di “relazione linguistica di significato”. Ce l’ha con Frege, e prima ancora con Locke e Kant. Con Russell, e anche con Husserl e con ogni idea di fondazione e scienza rigorosa. Via libera ad Heidegger, al Wittgenstein dei “giochi linguistici”. E niente “istinto logico del linguaggio”, niente “invarianti operative”, né “protocolli d’esperienza”. Bensì “situazioni”, nella lingua, ma pur sempre situazioni. Interpretazioni, rivoluzioni nei paradigmi della scienza. Questo l’approdo antifondazionista di Rorty, tra le due opere che ne decretano la fama: La svolta linguistica (1967) e La filosofia e lo specchio della natura (1979). Ma c’è qualcosa altro, che scandalizza non poco gli analitici duri. Ed è l’ingresso trionfale di Hegel, per il tramite di Rorty, nel panorama filosofico Usa. Perché Hegel e quale Hegel? Presto detto, è lo Hegel che scongela le cose a “relazioni”, a trama tutta interna alla coscienza che esperisce. Lo Hegel che rifiuta la fissità della “cosa in sè” di Kant, e che respinge l’esternità del mondo come un tic riflessivo, una proiezione inconcludente del sé sociale. In questo Rorty raccoglie due lezioni, oltre a quella di Hegel (del “suo” Hegel). L’influsso di Dewey con la sua prassi sociale e democratica, e quello di Quine, che riduce i significati del linguaggio a “comportamenti emotivi” (pur logicizzandoli in sequenze di esperienza raccolti in teorie). Nondimeno - qui l’equivoco - lo Hegel di Rorty è addomesticato. Perché nell’esperienza hegeliana è pur sempre la logica che la fa da padrona. La logica, che è un ordine del mondo, e anzi è l’ordine dialettico del mondo. Quanto al linguaggio, in Hegel è dotato di un istinto. E l’istinto è sempre la logica, che guida i conflitti del vissuto, li spinge al diapason e li risolve, nel segno dell’autocoscienza. Nulla di più lontano allora dalle idee di Rorty, che rifuggiva da ogni “oggettività” e ogni “fondazione”. Anzi, se c’è un senso complessivo nella sua filosofia, è proprio questa: ripulsa dell’idea di fondazione, intesa come “malattia da curare”. Proprio a questo alludono La filosofia e lo specchio della natura e altre opere come Contingenza, ironia e solidarietà ( 1989) oppure Oggettività, relativismo e verità (1991).
Per Rorty non c’è “fondamento” o “realtà vera” dietro affermazioni e teorie. Solo convenzioni, intese, paradigmi di senso. Legittimati dalla forza e dalle circostanze. Cose da indagare, interpretare e ridiscutere nel dialogo. Nella “fusione di orizzonti” tra i parlanti (nota gadameriana). E infine nella solidarietà, e nella “simpatia umana”. Cioè nella “conversazione” liberale, ironica e sempre aperta. Conversazione polifonica, e non già monotematica. Filosoficamente valida su cinema, fumetto, letteratura, arte, e dentro quei linguaggi. Ecco perché, diceva Rorty - al tempo in cui non c’è più “metalinguaggio”, ma ambiti di vita e giochi linguistici - la filosofia diviene “genere letterario tra gli altri”. Talché Rorty è stato il vero pensatore globale del “pensiero debole”, ben prima di Vattimo & Co. Un duttile conversatore, che ha rimescolato le carte e ha fatto della filosofia un gioco. Piacevolissimo, democratico, ma un po’ troppo “easy” e sostenibilmente leggero.

 

(Il consiglio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Sociologia Interattivo - Costruttivista, si rende disponibile alla rimozione del presente documento, qualora l'editore o l'autore considerino tale riproduzione lesiva dei loro diritti d'autore)

 


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