La fucina di Wittgenstein

Diego Marconi

“Il Sole 24 Ore” 8 Settembre 2002.

Dettato nel 1932 il «Big Typescript» è il grande laboratorio del pensatore austriaco

Un testo di transizione che permette di seguire da vicino il passaggio dalla prima alla seconda fase della sua riflessione, dal « Tractatus» alle «Ricerche filosofiche»

Come molti sanno, c'è un primo" e un "secondo" Wittgenstein: il primo è il giovanissimo autore del Tractatus logico-philosophicus, uno dei libri di filosofia più influenti del ventesimo secolo; il secondo è l'uomo che dedicò gli ultimi vent'anni della sua non lunga vita a cercare di scrivere un altro libro, che rimediasse ai "gravi errori" contenuti nel Tractatus.  Non ci riuscì, o almeno non ritenne di esserci riuscito in tutto e per tutto, ma alcuni dei risultati che egli stesso giudicò più soddisfacenti furono pubblicati sotto il titolo di Ricerche filosofiche.  Il primo Wittgenstein formulò una teoria del linguaggio che fu assunta come base dai neopositivisti di Vienna, e attraverso di loro determinò molte caratteristiche dello studio del significato (la cosiddetta "semantica filosofica") fino a oggi; il secondo Wittgenstein sostenne invece che fare una teoria dei linguaggio non è né possibile né necessario, e che, più in generale, la filosofia

non deve produrre teorie, le teorie filosofiche sono sempre sbagliate.  Il primo Wittgenstein pensava che il linguaggio raffiguri la realtà, il secondo pensava invece che questa tesi sia l'estensione indebita e dogmatica di una metafora fin dall'inizio confusa e fuorviante, una cattiva "immagine" da cui ci si dovrebbe liberare.  Il primo Wittgenstein pensava che ci fosse, in un certo senso, un solo linguaggio, il secondo che ci fossero innumerevoli giochi linguistici differenti. Il primo Wittgenstein pensava che, a livello profondo, tutte le parole funzionassero allo stesso modo, e cioè come nomi di oggetti; il secondo pensava invece che le parole siano come gli attrezzi di un artigiano, che funzionano in modi molto diversi (martello, cacciavite, tenaglie, colla ... ) anche se sono tutti contenuti nella stessa cassetta.  E così via.  Certo, ci sono importanti elementi di continuità tra la riflessione del "primo" Wittgenstein e quella del "secondo", e le differenze sono state spesso esagerate da una Vulgata semplicistica (anch'io l'ho appena fatto); ma non c'è dubbio che Wittgenstein abbia a un certo punto raggiunto la convinzione che il suo libro giovanile, il Tractatus, fosse sostanzialmente sbagliato.  Sbagliato in un modo interessante e forse importante, ma profondamente sbagliato.

Quand'è che Wittgenstein raggiunse questa convinzione?  All'incirca, tra il 1930 e il 1936. Ma se si volesse indicare un momento preciso in cui compaiono le idee che caratterizzeranno il pensiero del "secondo" Wittgenstein, si dovrebbe indicare l'estate del 1932, quando il filosofo dettò il dattiloscritto di 768 pagine noto come Big Typescript (Ludwig Wittgenstein, «The Big Typescript», a cura di A. De Palma, Einaudi, Torino 2002, pagg. 772, euro 35,00)Mentre stava ancora dettando questo testo si mise subito a rielaborarlo, e continuò a lavorarci per alcuni anni.  Un particolare stadio della rielaborazione fu pubblicato dagli esecutori testamentari del filosofo col titolò di Grammatica filosofica (1969); questa pseudo-opera di Wittgenstein, tradotta anche in italiano nel 1990, fu molto letta e commentata, mentre la sua fonte principale - il Big Typescript - rimase disponibile soltanto agli studiosi in forma di microfilm.  Recentemente (2000) ne è stata pubblicata l'edizione critica, e ora ne esce la traduzione italiana, a cura di Armando De Palma (una piccola parte, il capitolo intitolato Filosofia, era già stata tradotta nel 1996 da Donzelli).  La traduzione di De Palma ha il merito di riprodurre l'assoluta quotidianità del linguaggio di Wittgenstein, il meno tecnico dei filosofi.

Il Big Typescript è un testo di transizione non tanto perché rappresenti una fase distinta del pensiero di Wittgenstein intermedia tra il Tractatus e le Ricerche, quanto perché riflette il tortuoso percorso attraverso cui il filosofo si liberò di molti aspetti della sua prima filosofia per assumere un punto di vista nuovo; e lo riflette cosi da vicino da contenere, in molti casi, sia i tentativi di venire a capo delle difficoltà del Tractatus restando all'interno della sua prospettiva, -sia l'abbandono di quella prospettiva e la denuncia di quei tentativi come inutili e inetti.  Così, il libro contiene sia la teorizzazione del verificazionismo (la posizione secondo cui comprendere una proposizione è essere in grado di verificarla qui e ora, nell'esperienza presente) sia il suo abbandono; sia il tentativo di riscattare la teoria delle proposizioni elementari del Tractatus, attraverso analisi sottili quanto vane di enunciati come «a è rosso e a è verde», sia la critica della nozione di oggetto assolutamente semplice del Tractatus, che era alla base della teoria delle proposizioni elementari (§96), e la relativizzazione della nozione stessa di proposizione elementare (§28).

Da questo magma, a volte esasperante per il continuo ritorno di problemi e soluzioni che sembravano alle nostre spalle, emergono tuttavia i tratti del nuovo pensiero di Wittgenstein.  Anzitutto la critica dell'essenzialismo, cioè dell'idea che la filosofia debba cercare di determinare l'essenza del linguaggio, della proposizione, della regola e in generale di tutti gli strumenti concettuali di cui essa ha bisogno (come se potesse esserci una filosofia prima della filosofia) (§15).  Questi concetti sono pienamente utilizzabili anche se non ne sappiamo dare una definizione precisa (anche se non hanno una definizione precisa): «L'uso delle parole "gioco", proposizione, "linguaggio" eccetera. ha il carattere sfumato proprio dell'uso normale di tutti i nomi comuni del nostro linguaggio.  Credere che per questo motivo siano inservibili... sarebbe come se si volesse dire: "La luce della mia lampada è inservibile, perché non si sa dove cominci e dove finisca"».  Si affaccia così l'idea delle somiglianze di famiglia, resa notissima dalle Ricerche: i giochi, ad esempio, non hanno necessariamente tutti qualcosa in comune, in virtù della quale li chiamiamo tutti "giochi", ma sono imparentati tra loro da una rete di analogie: «Chiamo "gioco" ciò che sta nell'elenco (dei giochi che ci sono familiari), come anche ciò che fino a un certo punto (che non specifico ulteriormente) è simile a questi giochi» (§15, 49).

Se non si tratta più di determinare l'essenza del linguaggio, il lavoro del filosofo diventa l'esplorazione del linguaggio cosi com'è; non più il tentativo di cogliere strutture profonde che il linguaggio così com'è maschera, ma la descrizione di un modo di funzionare che è sotto i nostri occhi.  La «rappresentazione perspicua» delle regole d'uso del nostro linguaggio, della sua

grammatica, ci dà ciò che avevamo cercato "dietro" o "sotto" la superficie del linguaggio (§94).  Per cogliere le regole del nostro linguaggio è utile immaginare semplici situazioni di introduzione e uso di espressioni linguistiche (che Wittgenstein comincia proprio qui a chiamare "giochi linguistici", §46): un bambino che impara a usare le parole "luce" e "buio", due persone che costruiscono una casa passandosi lastre e mattoni (§7).  Qui si vedono come in vitro alcune caratteristiche del nostro linguaggio (e quindi dei nostri concetti, dei nostri modi di organizzare l'esperienza).

Chi conosce un po' Wittgenstein sa quale forma queste idee abbiano assunto nelle Ricerche filosofiche, e quale uso il filosofo ne abbia fatto.  Vale la pena di seguirne la formazione nel Big Typescript, straordinario laboratorio di una delle grandi filosofie del secolo passato.


Phoenix