Al di là del bene e del male

Friedrich Nietzsche

CAPITOLO SECONDO.
LO SPIRITO LIBERO.

24. "O sancta simplicitas!" (12). In quale curiosa semplificazione
e falsificazione vive l'uomo! Tosto che si comincia a farci
l'occhio per un siffatto prodigio, non si finisce mai di
meravigliarci! Come abbiamo reso tutto attorno a noi chiaro e
libero e semplice! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un libero
salvacondotto per ogni superficialità e al nostro pensiero una
divina brama di capricciosi salti e paralogismi! - Come abbiamo
saputo, fin da principio, conservarci la nostra ignoranza per
godere di una libertà a stento concepibile, di spregiudicatezza,
sventatezza, audacia, letizia di vita, per godere della vita! E
soltanto su queste basi d'ignoranza, ormai salde e granitiche, ha
potuto levarsi fino ad oggi la nostra scienza; la volontà di
sapere sul fondamento di una volontà molto più possente, la
volontà cioè di non sapere, d'incertezza, di non verità! Non già
come sua antitesi, bensì come suo affinamento! Per quanto, anche
il "linguaggio", qui come altrove, non abbia la possibilità di
evadere dalla sua goffaggine e debba continuare a parlare di
antitesi, là dove esistono solo gradi e una sottile gamma di
variazioni; per quanto, allo stesso modo, l'incarnata tartuferia
della morale, che è divenuta oggi per noi, in modo insormontabile,
'carne e sangue', possa distorcere a noi sapienti persino le
parole in bocca: di quando in quando ce ne rendiamo conto e
ridiamo sul fatto che proprio la scienza migliore ci voglia ancora
tener inchiodati nel miglior modo possibile a questo mondo
"semplificato", artificiale da cima a fondo, poeticizzato e
falsificato a dovere e che, volutamente o no, essa ami l'errore,
dal momento che lei, la vivente, - ama la vita!

25. Dopo un così giocondo avvio una parola seria non vorrebbe
restare inascoltata: si rivolge essa ai più seri. State in
guardia, voi filosofi e amici della conoscenza; e guardatevi dal
martirio! Dal soffrire 'per amore della verità'! E perfino dal
difendere voi stessi! Si corrompe, nella vostra coscienza, ogni
innocenza e ogni delicata neutralità, diventate caparbi contro le
obiezioni e i drappi rossi, vi ristupidite, v'imbestiate, vi
trasformate in tori quando nella lotta contro il pericolo, la
denigrazione, il sospetto, il rifiuto, finite per recitare
giocoforza sulla terra anche la parte dei difensori della verità:
come se 'la verità' fosse una persona così sprovveduta e balorda
da aver bisogno di difensori! E proprio voi, cavalieri dalla
trista figura, signori parassiti e tessitori-di-ragne dello
spirito! Infine lo sapete abbastanza bene voi, che non deve avere
alcuna importanza il fatto che proprio voi abbiate ragione, e
sapete pure che fino a oggi mai nessun filosofo ha avuto ragione e
che potrebbe esserci in quel piccolo punto interrogativo, che voi
mettete dietro le vostre parole favorite e dottrine predilette (e
all'occasione dietro voi stessi) una più lodevole veridicità che
non in tutti i solenni e baldanzosi atteggiamenti dinanzi agli
accusatori e alle corti di giustizia! Fatevi piuttosto da parte!
Fuggite a nascondervi! E abbiate la vostra maschera e astuzia,
Perchè vi si confonda con altri! Oppure Perchè vi si tema un poco!
E non mi dimenticate il giardino, il giardino con le sue
inferriate d'oro! E circondatevi di uomini che siano come un
giardino; - o come musica sopra le acque, al momento della sera,
quando il giorno già diventa ricordo: scegliete la "buona"
solitudine, la libera animosa leggera solitudine, che vi dà anche
un diritto di restare ancora, in qualche modo, buoni. Come rende
velenosi, astuti e cattivi ogni lunga guerra che non si lascia
condurre con aperta violenza! Come ci rende "personali" un lungo
timore, un lungo tener d'occhio il nemico, un possibile nemico!
Questi ripudiati dalla società, questi lungamente perseguitati,
ed anche gli eremiti per forza, gli Spinoza o i Giordano Bruno -
finiscono sempre per diventare, sia pure sotto i più spirituali
camuffamenti, e forse a loro stessa insaputa, degli assetati di
vendetta e dei raffinati avvelenatori (si dissotterri una buona
volta il fondamento dell'etica e della teologia spinozista!) - per
non parlare della balordaggine dell'indignazione morale, che è
segno indefettibile, in un filosofo, del fatto che il filosofico
senso del comico se n'è fuggito via. Il martirio del filosofo, il
suo 'olocausto per la verità', porta alla luce quel che di
demagogico e d'istrionesco si annida in lui; e posto che sino ad
oggi lo si sia riguardato soltanto con una curiosità artistica,
può essere certo comprensibile, in rapporto a molti filosofi, il
pericoloso desiderio di vederli una buona volta anche nella loro
degenerazione (degenerati nella forma del 'martire', dell'urlatore
da ribalta e da tribuna). Soltanto che, avendo un tal desiderio,
si deve essere chiari su "quel che" ci sarà da vedere: -
null'altro che una rappresentazione satiresca, una farsa da fine-
spettacolo, la perpetua dimostrazione che la lunga vera tragedia è
"finita": ammesso che ogni filosofia, nel suo nascere, sia stata
una lunga tragedia.

26. Ogni persona squisita tende istintivamente alla sua rocca e
alla sua intimità, dove trovare la "liberazione" dalla massa, dai
molti, dal maggior numero, dove è possibile dimenticare la regola
'uomo', in quanto sua eccezione: - salvo l'unico caso, che da un
istinto ancor più forte costui venga ricacciato direttamente su
questa regola, come uomo della conoscenza nel suo grande ed
eccezionale significato. Chi nel frequentare gli uomini non si è
cangiato secondo le circostanze in tutti i colori della pena,
verde e grigio di nausea, fastidio, compassione, tetraggine,
squallidezza, non è certo un uomo di gusto superiore; ma posto che
egli non prenda volontariamente su di s‚ tutti questi pesi e
questo tedio, posto che li eluda perpetuamente e resti, come si è
detto, tacitamente e superbamente annidato nella sua rocca,
ebbene, una cosa è certa: costui non è fatto n‚ predestinato alla
conoscenza. Infatti, se così fosse, dovrebbe dire un bel giorno a
se stesso 'il diavolo si porti il mio buon gusto! la regola è più
interessante dell'eccezione di me, l'eccezione!' - e si
porterebbe giù "in basso", soprattutto 'addentro'. Lo studio
dell'uomo "medio", un lungo severo studio, e a questo fine molti
mascheramenti, autosuperamenti, molta fiducia, molte cattive
compagnie ogni compagnia è cattiva, salvo quella con i propri
simili -: tutto ciò costituisce un necessario frammento della
biografia di ogni filosofo, forse il frammento più sgradevole, più
maleodorante, più ricco di delusioni. Ma se ha fortuna, come si
addice ad un beniamino della conoscenza, incontrerà effettivi
abbreviatori e mitigatori del suo compito - intendo dire i
cosiddetti cinici, quei tali appunto che semplicemente riconoscono
in s‚ la bestia, la generalità, la 'regola' e possiedono, nello
stesso tempo, anche quel grado di spiritualità e di pruriginosa
sensibilità necessario per parlare di s‚ e dei propri simili
"dinanzi a testimoni": talvolta si crogiolano persino nei libri
come nei loro stessi escrementi. Il cinismo è l'unica forma nella
quale anime volgari sfiorano quel che è onestà; e l'uomo superiore
deve aprire le orecchie ad ogni più rozzo e più sottile cinismo e
congratularsi ogni volta con se medesimo, se proprio dinanzi a lui
si fanno sentire lo spudorato pagliaccio o il satiro della
scienza. Si dànno persino dei casi in cui alla nausea si mescola
la fascinazione: tutte le volte, cioè, in cui il genio sia legato,
per un capriccio della natura, a un siffatto indiscreto caprone e
scimmia, come è accaduto per l'abate Galiani, l'uomo più profondo,
più acuto e forse più sporco del suo secolo - egli era assai più
profondo di Voltaire e quindi anche notevolmente meno loquace.
Accade già abbastanza di frequente che, come si è accennato, una
testa di scienziato sia posta sopra un corpo di scimmia, un fine
eccezionale intelletto sia congiunto ad un'anima volgare -
eventualità tutt'altro che rara specialmente per i nostri medici e
fisiologi della morale. E dovunque uno parli non con animosità, ma
piuttosto in modo mansueto, dell'uomo come di un ventre con una
doppia specie di bisogni, e di una testa con un solo bisogno;
dovunque qualcuno veda, cerchi e "voglia" vedere sempre null'altro
che fame e libidine sessuale, quali molle peculiari ed esclusive
delle azioni umane; insomma, dovunque si parli 'male' dell'uomo e
neppure in guisa "cattiva", l'amante della conoscenza dovrà
prestare un'attenzione sottile e scrupolosa, dovrà tendere le
orecchie soprattutto laddove si parla senza indignazione. Giacché‚
l'uomo indignato, e chiunque, con i suoi propri denti, laceri e
smembri se medesimo (oppure, in sostituzione di s‚, il mondo, Dio
o la società), potrà anche, in realtà, secondo i calcoli della
morale, starsene più in alto del satiro ridente e pago di s‚, ma
in ogni altro senso sarà il caso più consueto, più irrilevante e
meno istruttivo. E nessuno "mente" tanto quanto l'indignato.

27. E' difficile essere compresi: specialmente se si pensa e si
vive "gangasrotogati", in mezzo soltanto a uomini che pensano e
vivono diversamente, cioè "kurmagati" o nel migliore dei casi,
secondo il modo di camminare della rana, "mandeikagati" - faccio
appunto tutto il possibile per essere anch'io 'difficilmente
compreso'! - e si deve essere riconoscenti di cuore già per la
buona volontà d'interpretare con una qualche finezza. Ma per
quanto concerne 'i buoni amici', che sono sempre troppo comodi e
credono di avere proprio in quanto amici un diritto alla comodità:
sarà bene concedere loro, fin da principio, un libero campo e
un'arena per i fraintendimenti - così avremo un altro motivo di
riso - oppure converrà eliminarli del tutto, questi buoni amici -
e ancora riderne!

28. Ciò che di una lingua è traducibile nel modo peggiore in
un'altra, è il "tempo" del suo stile, che come tale trova il suo
fondamento nel carattere della razza o, per dirla in termini
fisiologici, nel "tempo" medio del suo 'metabolismo'. Esistono
traduzioni, fatte con onesti propositi, che sono quasi delle
falsificazioni, in quanto involontarie volgarizzazioni
dell'originale, semplicemente Perchè non pot‚ essere tradotto
anche il loro "tempo" ardimentoso e allegro, il quale salta a piè
pari tutto quanto v'è di pericoloso in parole e cose, aiuta a
tirarsene fuori. Il tedesco è pressoch‚ incapace del "presto"
nella sua lingua: dunque, come si può logicamente concludere, è
altresì incapace di molte delle più squisite e temerarie "nuances"
del libero pensiero, del pensiero proprio degli spiriti liberi.
Allo stesso modo gli sono estranei il buffo e il satiresco, e
similmente Aristofane e Petronio sono per lui intraducibili. Ogni
sostenutezza, pesantezza, pomposa goffaggine, ogni specie di stile
interminabilmente prolisso e tedioso hanno trovato nei Tedeschi
uno sviluppo estremamente ricco di varietà, - è un fatto, e ne
chiedo venia, che la stessa prosa di Goethe, nella sua mescolanza
di rigidezza e grazia, non costituisce un'eccezione, essendo
un'immagine riflessa del 'buon tempo antico' a cui appartiene,
nonch‚ un'espressione del gusto tedesco all'epoca in cui esisteva
ancora un 'gusto tedesco': che era poi un gusto rococò "in moribus
et artibus". Lessing rappresenta un'eccezione, grazie alla sua
natura di attore, la quale molto capiva e di molto s'intendeva:
lui, che non invano fu il traduttore di Bayle, lui che amava
rifugiarsi accanto a Diderot e Voltaire e ancor più tra i poeti
della commedia romana: - Lessing amava anche nel "tempo" la
libertà dello spirito, la fuga dalla Germania. Ma quando mai la
lingua tedesca, sia pure nella prosa di un Lessing, riuscì a
imitare il "tempo" di Machiavelli, che nel suo "Principe" fa
respirare l'aria fine e asciutta di Firenze e non può esimersi dal
riferirci il più serio dei casi in uno sfrenato "allegrissimo":
forse non senza avvertire maliziosamente, da quell'artista che è,
quale contrasto stia egli osando, pensieri lunghi, difficili,
duri, pericolosi, e un "tempo" da galoppo, assecondante l'estro
migliore e più ardito. A chi infine sarebbe mai consentito di
tradurre in tedesco Petronio, il quale, più di qualsiasi grande
musicista sino ad oggi, è stato un maestro del "presto", con le
sue invenzioni, lampi di genio, parole: - che importanza hanno, in
definitiva, tutti i pantani del mondo malato e malvagio, e anche
del 'mondo antico', se si ha, come lui, piedi di vento, moto e
respiro di vento, lo scherno liberatore di un vento che guarisce
ogni cosa, costringendo ogni cosa a "correre"! E per venire ad
Aristofane, quello spirito trasfigurante e complementare, per
amore del quale si perdona all'intera grecità d'essere esistita,
semprech‚ si sia compreso sino in fondo quante cose hanno bisogno
di perdono e di trasfigurazione: - non saprei che cosa mi ha fatto
sognare sul segreto di Platone e sulla sua natura sfingea più di
quel "petit fait" miracolosamente tramandatoci: che sotto
l'origliere del suo letto di morte non fosse stata rinvenuta
alcuna 'bibbia', nulla di egiziano, di pitagorico, di platonico -
bensì Aristofane. Come avrebbe mai potuto sia pure un Platone
sopportare la vita - una vita greca, alla quale egli aveva detto
no, - senza un Aristofane?

29. E' cosa di ben pochi essere indipendenti: - è una prerogativa
dei forti. E chi tenta di esserlo, anche con il miglior diritto,
ma senza esservi "costretto", dimostra con ciò che egli
verosimilmente non è soltanto forte, ma temerario sino alla
dismisura. Costui si infila in un labirinto, moltiplica in mille
modi i pericoli che la vita, già di per se stessa, comporta: dei
quali non è il minore l'impossibilità per ognuno di vedere con i
propri occhi come e dove si stia smarrendo e resti isolato, come e
dove venga dilaniato, membro a membro, da un qualche cavernicolo
Minotauro della coscienza. Ammesso che un tale individuo perisca,
questo evento è così lontano dalla comprensione degli uomini che
essi non possono sentirlo n‚ compatirlo: - e costui non può più
tornare indietro, neppure alla compassione degli uomini!

30. Le nostre conoscenze più elevate risuonano inevitabilmente - e
anzi deve essere così - come follie, in talune circostanze come
delitti, allorch‚ vengono indebitamente all'orecchio di coloro che
non sono strutturati n‚ predestinati per cose siffatte.
L'essoterico e l'esoterico, come venivano un tempo distinti tra i
filosofi, presso gli Indiani come presso i Greci, i Persiani, i
Musulmani, insomma ovunque si credeva in una gerarchia e "non già"
nell'uguaglianza e negli uguali diritti, - non spiccano l'uno
rispetto all'altro per la sola ragione che l'individuo essoterico
se ne sta al di fuori e osserva, valuta, misura, giudica
dall'esterno e non dall'interno: il fatto più essenziale è che
questi vede le cose dal basso, - mentre l'esoterico "dall'alto"!
Esistono altitudini dell'anima, guardando dalle quali perfino la
tragedia cessa di avere un effetto tragico; e se si fa di tutti i
dolori del mondo un dolore solo, chi potrebbe arrischiarsi a
dichiarare che "necessariamente" questo spettacolo indurrebbe e
costringerebbe alla compassione e quindi al raddoppiamento del
dolore? Ciò che serve di nutrimento e di ristoro a un tipo
superiore di uomini deve essere quasi un veleno per un tipo umano
assai diverso e inferiore. Le virtù dell'uomo volgare
significherebbero forse, in un filosofo, vizi e debolezze;
potrebbe darsi che un uomo d'alto lignaggio, ove tralignasse e
andasse in rovina, giungesse soltanto in tal modo a possedere
quelle qualità in virtù delle quali, nell'ignobile mondo in cui è
affondato, si sente la necessità di venerarlo ormai come un santo.
Vi sono libri che hanno per l'anima e la salute un valore opposto,
a seconda che se ne serva un'anima ignobile, un'inferiore forza
vitale, oppure invece quella più alta e più possente: nel primo
caso sono libri pericolosi, frantumanti e dissolventi, nel
secondo, sono appelli d'araldo, che invitano i più prodi alla
"loro" prodezza. I libri per tutti sono sempre libri maleodoranti:
l'odore della piccola gente resta loro attaccato addosso. Dove il
popolo mangia e beve, perfino là dove esso tributa la sua
venerazione, c'è di solito del fetore. Non si deve andare in
chiesa se si vuol respirare aria "pura".

31. L'atteggiamento di venerazione e di disprezzo negli anni
giovanili è ancora privo di quell'arte della "nuance" che
costituisce il miglior profitto della vita, e bisogna pagare un
prezzo giustamente duro per avere in tal modo aggredito uomini e
cose con un sì e un no. Tutto è disposto in modo che il peggiore
di tutti i gusti, il gusto dell'assoluto, venga crudelmente
alimentato e sia sottoposto ad abuso, finch‚ l'uomo non impari a
riporre una qualche arte nei suoi sentimenti e preferisca
arrischiarsi anche nel tentativo dell'artificioso: così fanno i
veri artisti della vita. L'iracondia e lo spirito di venerazione,
che sono propri della gioventù, non sembrano darsi pace se non
hanno prima falsificato a dovere uomini e cose, cosicch‚ sia
possibile scatenarci contro di essi: - la gioventù è in se stessa
qualcosa che falsifica e inganna. Più tardi, quando la giovane
anima, torturata da acute disillusioni, finisce per rivoltarsi
sospettosamente contro se stessa, ancor sempre ardente e selvaggia
pur nella sua diffidenza e nei suoi rimorsi di coscienza: come si
adira con se stessa, con quale impazienza si dilania, come si
vendica per il suo lungo autoaccecamento, quasi fosse stata questa
una volontaria cecità! In questo trapasso si castiga se stessi
merc‚ la diffidenza verso il proprio sentimento: si tortura col
dubbio il proprio entusiasmo, anzi si avverte già come un pericolo
la tranquilla coscienza, quasi un velato eclissarsi dell'onestà
più raffinata e un suo rilassamento; e soprattutto si prende
posizione, una posizione di principio, contro la 'gioventù'.
Passeranno dieci anni, e si capirà che anche tutto questo era
ancora gioventù!

32. Per tutto il periodo più lungo della storia umana chiamata èra
preistorica il valore o il disvalore di un'azione veniva dedotto
dalle sue conseguenze: in tal modo l'azione in se stessa, come
pure la sua origine, non veniva presa in considerazione, bensì era
la forza retroattiva del successo o dell'insuccesso che guidava
gli uomini a pensar bene o male di un'azione, a un dipresso come
ancor oggi, in Cina, il prestigio o la vergogna retrocede dal
figlio ai genitori. Noi chiamiamo questo periodo il periodo
"premorale" dell'umanità: l'imperativo 'conosci te stesso!' era
allora ancora ignorato. Negli ultimi dieci millenni si è invece
giunti, passo su passo, così lontano in alcune grandi plaghe della
terra, da lasciare che l'origine dell'azione decida sul suo
valore: un grande successo nell'insieme, un notevole affinamento
dello sguardo e del criterio di valutazione, l'inconscia
ripercussione del predominio di valori aristocratici e della fede
nell''origine', il segno distintivo di un periodo che in senso più
stretto può essere qualificato come "morale": con ciò il primo
tentativo di conoscenza di s‚ è fatto. Invece della conseguenza,
l'origine: quale rovesciamento di prospettiva! E un rovesciamento
certo raggiunto soltanto dopo lunghe lotte e tentennamenti!
Indubbiamente, divennero appunto con ciò egemoniche una nuova
fatale superstizione, una singolare angustia interpretativa:
s'interpretò l'origine di un'azione nel senso più determinato
possibile come origine procedente da un'"intenzione", si convenne
di credere che il valore di un'azione fosse riposto nel valore
della sua intenzione. L'intenzione quale integrale origine e
preistoria di un'azione: sotto questo pregiudizio, quasi sino ai
nostri giorni, si è moralmente lodato, biasimato, sentenziato e
anche filosofato su questa terra. - Ma non dovremmo oggi essere
arrivati alla necessità di risolverci, ancora una volta, per un
rovesciamento e una radicale rimozione dei valori, grazie a una
rinnovata autoriflessione e a un approfondimento dell'umanità -
non dovremmo trovarci alla soglia di un periodo che dovrebbe
essere qualificato, negativamente, prima di tutto come
"extramorale", un periodo in cui almeno noi immoralisti siamo
mossi dal sospetto che proprio nell'elemento "non intenzionale" di
un'azione sia riposto il suo valore decisivo e che tutta la sua
intenzionalità, tutto quel che di essa può essere osservato,
saputo, 'reso cosciente' appartiene ancora alla sua superficie e
scorza; - la quale, al pari di ogni scorza, tradisce l'esistenza
di qualcosa, ma ancor di più la "nasconde"? Insomma, noi crediamo
che l'intenzione sia soltanto un segno e un sintomo che esige in
primo luogo una decifrazione, e oltre a ciò un segno che significa
troppe cose diverse e quindi, per s‚ soltanto, quasi nulla;
crediamo che la morale, nel senso avuto fino a oggi, dunque come
morale di intenzioni, sia stata un pregiudizio, una cosa avventata
e forse provvisoria, ma in ogni caso qualcosa che deve essere
superato. Il superamento della morale, in un certo senso persino
l'autosuperamento della morale: possa essere questa la
denominazione di quel lungo lavoro segreto che è riservato alle
più fini ed oneste e anche più maliziose coscienze d'oggi, quali
viventi pietre di paragone dell'anima.

33. Non c'è niente da fare: si deve implacabilmente chiamare al
rendiconto e portare in giudizio i sentimenti d'abnegazione e di
sacrificio per il prossimo, tutta quanta la morale
dell'autorinuncia; come pure l'estetica dell''intuizione
disinteressata', sotto la quale la svirilizzazione dell'arte cerca
oggi, in maniera abbastanza fascinosa, di crearsi una tranquilla
coscienza. C'è anche troppo incantesimo zuccherato in quei
sentimenti del 'per gli altri', del 'non per me', Perchè non si
debba sentire la necessità di diventare, a questo proposito,
doppiamente diffidenti e chiedere: 'Non sono forse tutti questi
sentimenti... delle seduzioni?'. - Il fatto che essi suscitino
piacere - a chi li possiede e a chi assapora i loro frutti come
anche al semplice spettatore, non è ancora argomento in loro
favore, ma piuttosto un espresso invito alla cautela. Siamo dunque
cauti!

34. Da qualunque punto di vista della filosofia ci si voglia porre
anche oggi: da qualunque luogo si guardi, l'"erroneità" del mondo,
in cui crediamo di vivere, è l'aspetto più sicuro e più saldo di
cui possono ancora impadronirsi i nostri occhi: troviamo in
questo senso ragioni su ragioni che ci vorrebbero indurre a
congetture su un principio ingannatore nell''essenza delle cose'.
Ma chi addossa la responsabilità della falsità del mondo al nostro
stesso pensiero, quindi allo 'spirito' - un'onorevole scappatoia
praticata da ogni cosciente o incosciente "advocatus dei" -: chi
considera questo mondo, unitamente a spazio, tempo, figura,
movimento, come risultato di una "deduzione" sbagliata: costui
avrebbe per lo meno un buon motivo per imparare infine, contro
ogni pensiero come tale, la diffidenza: non sarebbe questo ad
averci giocato fino a oggi i tiri peggiori? E quale garanzia ci
darebbe di non continuare a fare quello che ha sempre fatto? Con
tutta serietà: l'ingenuità dei pensatori ha qualcosa che ispira
commozione e rispetto, ed è questa a permettere loro di continuare
a porsi, ancor oggi, di fronte alla coscienza, con la preghiera
che essa dia loro "oneste" risposte: per esempio, se essa sia
'reale' e per quale mai ragione si tenga così energicamente alla
larga dal mondo esterno, nonch‚ altri problemi del genere. La fede
in 'certezze immediate' è un'ingenuità "morale" che fa onore a noi
filosofi: ma - dobbiamo ormai essere uomini non '"soltanto"
morali'! Prescindendo dalla morale, quella fede è una stupidaggine
che non ci fa molto onore! Sia pur considerata, nella vita civile,
la sempre vigile diffidenza come un segno di 'cattivo carattere' e
sia pure annoverata, di conseguenza, tra le follie: qui tra noi,
al di là del mondo civile e del suo sì o no, - che cosa potrebbe
impedirci di essere imprudenti e di dire: il filosofo ha infine un
"diritto" al 'cattivo carattere', essendo la persona che più di
ogni altra è stata fino a oggi sempre sbeffeggiata su questa
terra, - egli ha oggi il "dovere" di essere diffidente, di
sbirciar fuori con tutta malizia da ogni abisso di sospetto nel
quale si trova. - Mi si perdoni d'aver scherzato con questa
melanconica smorfia e con questo giro di frase: proprio io stesso,
infatti, ho imparato da un pezzo a pensarla diversamente sugli
inganni creati o subiti, a valutarli diversamente, e tengo pronte
almeno un paio di bòtte nelle costole, per il cieco furore con cui
i filosofi ricalcitrano al fatto di venir ingannati. Perchè no?
che la verità abbia maggior valore dell'apparenza, non è nulla più
che un pregiudizio morale; è perfino l'ammissione peggio
dimostrata che ci sia al mondo. Si voglia dunque confessare a se
stessi quanto segue: che non ci sarebbe assolutamente vita, se non
sulla base di valutazioni e di illusioni prospettiche; e se si
volesse con il virtuoso entusiasmo e la balordaggine di alcuni
filosofi togliere completamente di mezzo il 'mondo apparente',
ebbene, posto che voi possiate far questo, - anche della vostra
'verità', almeno in questo caso, non resterebbe più nulla! Sì, che
cosa ci costringe soprattutto ad ammettere che esista una
sostanziale antitesi di 'vero' e 'falso'? Non basta forse
riconoscere diversi gradi di illusorietà, nonch‚, per così dire,
ombre e tonalità complessive, più chiare e più oscure,
dell'apparenza, differenti "valeurs", per usare il linguaggio dei
pittori? Per quale ragione mai il mondo, "che in qualche maniera
ci concerne", - non potrebbe essere una finzione? E se a questo
punto qualcuno domandasse 'ma non si richiede per ogni finzione un
autore'? - non gli si potrebbe rispondere chiaro e tondo: E Perchè
mai? Codesto 'si richiede' non rientra forse nella finzione? Non è
forse permesso essere alla fine un po' ironici verso il soggetto,
come verso oggetto e predicato? Non potrebbe forse il filosofo
innalzarsi al di sopra della fiducia nella grammatica? Con tutto
il rispetto per le governanti, non sarebbe questo il momento che
la filosofia rinunciasse alla fiducia nelle governanti?

35. Oh Voltaire! Oh umanitarietà! Oh stolidità! Ha pure un qualche
peso il 'vero', la "ricerca" del vero, e se l'uomo in ciò si
comporta troppo umanamente 'il ne cherche le vrai que pour faire
le bien' - scommetto che non troverà nulla.

36. Posto che nient'altro sia 'dato' come reale, salvo il nostro
mondo di bramosie e di passioni, e che non si possa discendere o
salire ad alcun'altra 'realtà', salvo appunto quella dei nostri
istinti - il pensare, infatti, è soltanto un rapportarsi reciproco
degli istinti -: non sarebbe allora permesso di fare il tentativo
e di porre la questione se questo 'dato' non "basti" a intendere,
sulla base di quelli similari, anche il cosiddetto mondo
meccanicistico (o 'materiale')? Non già voglio dire come
un'illusione, un''apparenza', una 'rappresentazione' (nel senso di
Berkeley e di Schopenhauer), bensì come qualcosa avente lo stesso
grado di realtà dei nostri stessi affetti - come una forma
primitiva del mondo degli affetti, in cui giace ancora conchiuso
in una possente unità tutto ciò che poi si ramifica e si plasma
nel processo organico (e pure si assottiglia e s'infiacchisce,
com'è logico), come una specie di vita istintiva in cui anche
tutte quante le funzioni organiche con la loro autoregolazione,
assimilazione, nutrizione, eliminazione, ricambio sono
sinteticamente congiunte l'una all'altra - come una preformazione
della vita? - Infine, non soltanto è permesso fare questo
tentativo, ma ciò è anche imposto, se si prende come punto di
partenza la coscienza morale del "metodo". Non accettare
molteplici specie di causalità, fintantoch‚ il tentativo di far
bastare una soltanto di esse non si sia spinto sino al suo limite
estremo (sino all'assurdo, mi sia consentito dire): è questa una
morale del metodo a cui oggi non ci si deve sottrarre - consegue
'dalla sua definizione', come direbbe un matematico. In definitiva
la questione è se noi effettivamente riconosciamo la volontà come
"agente", se noi crediamo alla causalità del volere: se ci
comportiamo in questo modo e in fondo la fede in "tutto questo" è
appunto la nostra fede nella causalità stessa , "siamo costretti"
a fare il tentativo di porre ipoteticamente la causalità del
volere come causalità esclusiva. 'volontà' può agire naturalmente
su 'volontà' e non su 'materia' (non sui 'nervi', per esempio):
insomma occorre osare l'ipotesi se, ovunque vengano riconosciuti
'effetti', non agisca il volere sul volere e se ogni accadimento
meccanico, in quanto in esso diventa operante una forza, non sia
appunto forza volitiva, effetto del volere. Posto infine che si
riuscisse a spiegare tutta quanta la nostra vita istintiva come la
plasmazione e la ramificazione di "un'unica" forma fondamentale
del volere - cioè della volontà di potenza, come è la "mia" tesi
-; posto che si potesse ricondurre tutte le funzioni organiche a
questa volontà di potenza e si trovasse in essa la soluzione del
problema della generazione e della nutrizione - si tratta di "un
solo" problema -, ci si sarebbe con ciò procurati il diritto di
determinare univocamente "ogni" forza agente come: "volontà di
potenza". Il mondo veduto dall'interno, il mondo determinato e
qualificato secondo il suo 'carattere intelligibile' - sarebbe
appunto 'volontà di potenza' e nient'altro che questa.

37. 'Come? Questo, per parlare alla buona, vorrebbe dire che Iddio
è confutato, ma non già il diavolo -?'. Al contrario! Al
contrario, amici miei! E, corpo di un diavolo, chi mai vi
costringe a parlare alla buona! -

38. Come ultimamente, con tutto lo splendore dell'età moderna, è
tornato a succedere nel caso della rivoluzione francese, quella
macabra e, a giudicarla da vicino, superflua farsa, dentro la
quale, tuttavia, i nobili ed esaltati spettatori dell'intera
Europa hanno da lontano per tanto tempo e con tanta passione
trovato l'interpretazione dei loro stessi sdegni ed entusiasmi,
"finch‚ il testo non scomparve sotto l'interpretazione": così una
nobile posterità potrebbe ancora una volta fraintendere l'intero
passato e soltanto in tal modo, forse renderne tollerabile la
vista. - O piuttosto, non è questo già avvenuto? non siamo stati
noi stessi questa 'nobile posterità'? E non è precisamente oggi,
in quanto ce ne rendiamo conto - che tutto questo è finito?

39. Nessuno riterrà tanto facilmente vera una dottrina, per il
semplice fatto che essa rende felici o virtuosi: salvo forse i
cari 'idealisti' che vanno in sollucchero per il buono, il vero,
il bello e lasciano sguazzare nel loro stagno ogni sorta di
variopinte, goffe e paciose idealità. Felicità e virtù non sono
argomenti. Ma anche da parte di spiriti pensosi ci si dimentica
volentieri che il rendere infelici e il rendere cattivi sono
controargomenti altrettanto poco validi. Una cosa potrebbe essere
vera pur essendo dannosa e pericolosa al massimo grado: anzi
potrebbe perfino appartenere alla costituzione fondamentale
dell'esistenza il fatto che chi giunge alla perfetta conoscenza
incontri l'annullamento - cosicch‚ il vigore di uno spirito si
misurerebbe appunto da quanta verità sia riuscito ancora a
sopportare, o, più chiaramente, dal grado fino al quale "abbia
avuto bisogno" di assottigliarla, dissimularla, addolcirla,
smussarla, falsificarla. E' tuttavia indubitabile che ai fini
della scoperta di certe "parti" della verità i malvagi e
gl'infelici si trovano in condizioni di maggior vantaggio e
posseggono una più grande probabilità di successo; per non parlare
dei malvagi che sono felici - una specie di uomini che viene
passata sotto silenzio dai moralisti. Gli è forse che durezza e
astuzia offrono per la nascita dello spirito forte e indipendente
condizioni più favorevoli di quanto non offra quella mite,
gentile, remissiva bontà di carattere e arte del prendere alla
leggera, che si apprezza, e con ragione, in un dotto. Supposto, e
ciò vien prima d'ogni altra cosa, che non si restringa la nozione
di 'filosofo' al filosofo che scrive libri o che addirittura
porta nei libri la "sua" filosofia! All'immagine del filosofo
dallo spirito libero Stendhal aggiunge un ultimo tratto che, per
amore del gusto tedesco, non voglio tralasciare di sottolineare, -
giacché‚ esso va "contro" il gusto tedesco. 'Pour ˆtre bon
philosophe' dice questo ultimo grande psicologo 'il faut ˆtre sec,
clair, sans illusion. Un banquier, qui a fait fortune, a une
partie du caractère requis pour faire des d‚couvertes en
philosophie, c'est àdire pour voir clair dans ce qui est' (13).

40. Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde
hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. Non dovrebbe
essere soprattutto l'"antitesi" il giusto travestimento con cui
incede il pudore di un dio? Una domanda problematica: e sarebbe
curioso che un qualche mistico non avesse già osato con se stesso
qualcosa di simile. Ci sono eventi di specie così delicata, che si
fa bene a seppellirli e a renderli irriconoscibili con una
grossolanità; ci sono azioni compiute dall'amore e da una
traboccante magnanimità, a seguito delle quali non ci sarebbe
nulla di più consigliabile che prendere un bastone e caricare di
legnate i testimoni oculari, e così offuscare la loro memoria.
Taluni sono capaci di offuscare e bistrattare la propria memoria,
per vendicarsi almeno di quell'unico testimone - il pudore è
ingegnoso. Non sono le cose peggiori quelle di cui ci si vergogna
nel peggior modo: dietro una maschera non c'è soltanto fraudolenza
- c'è molta bontà nell'astuzia. Niente mi impedisce di pensare che
un uomo, il quale abbia da nascondere qualcosa di prezioso e di
facile a guastarsi, rotoli attraverso la vita tondo e rozzo come
una grande, vecchia botte di vino pesantemente cerchiata di ferro:
così vuole la finezza del suo pudore. Un uomo che ha una
profondità nel suo pudore incontra anche i suoi destini e le sue
delicate decisioni su strade alle quali sono pochi a giungere, e
la cui esistenza neppure agl'intimi e ai più fidati è dato sapere:
si cela ai loro occhi tanto il repentaglio cui egli espone la
propria vita, quanto la sua riconquistata sicurezza vitale. Un
tale uomo riservato, che istintivamente si serve delle parole per
tacere e per celare ed è inesauribile nello sfuggire alla
comunicazione, "vuole" ed esige che al suo posto erri nei cuori e
nelle menti dei suoi amici una sua maschera; e anche ammesso che
egli non voglia tutto questo, un bel giorno gli si spalancheranno
gli occhi sul fatto che a onta di ciò v'è laggiù una sua maschera
- e che è bene le cose stiano in questo modo. Ogni spirito
profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni
spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla
costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni
parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà.

41. Occorre dare a se stessi le prove che si è destinati
all'indipendenza e al comando, e ciò a tempo giusto. Non bisogna
sfuggire a queste prove, sebbene esse siano forse il gioco più
pericoloso che si possa giocare, e siano infine soltanto prove che
vengono fornite dinanzi a noi stessi, come testimoni, e a nessun
altro giudice. Non si deve restare attaccati a una persona: fosse
anche la più amata - ogni persona è un carcere e anche un
cantuccio. Non si deve restare attaccati a una patria: fosse anche
la più sofferente e la più bisognosa d'aiuto - è già meno
difficile distaccare il proprio cuore da una patria vittoriosa.
Non si deve restar attaccati a un senso di compassione: anche se
fosse rivolta a uomini superiori, nel cui eventuale martirio e
abbandono sia stato il caso a farci gettare uno sguardo. Non si
deve restar attaccati a una scienza: dovesse pure allettare
qualcuno con le più preziose scoperte, riservate, in apparenza,
proprio "a noi". Non si deve restare attaccati alla propria
liberazione, a quella voluttuosa lontananza ed estraneità
dell'uccello che vola sempre più in alto per vedere sempre più
sotto di s‚ il pericolo di chi vola. Non si deve restare
attaccati alle nostre proprie virtù e sacrificare noi stessi come
totalità a una qualche singola parte, per esempio, al nostro
'spirito d'ospitalità': la qual cosa rappresenta il pericolo dei
pericoli nelle anime ricche e di alto lignaggio, che trattano se
stesse con prodigalità, quasi con indifferenza e spingono così
avanti la virtù della liberalità da farla diventare un vizio.
Occorre saper "conservarsi": è la più forte prova d'indipendenza.

42. Sta sorgendo una nuova stirpe di filosofi: oso battezzarla con
un nome non esente da pericoli. Così come io li vado divinando,
così come essi si lasciano divinare - giacché‚ s'addice alla loro
specie "voler" restare in un qualche punto degli enigmi -, questi
filosofi dell'avvenire vorrebbero avere il diritto, forse anche il
torto, di essere chiamati "tentatori". Questo stesso nome è infine
soltanto un tentativo e, se si vuole, una tentazione.

43. Sono forse questi filosofi, sul punto di sopraggiungere, nuovi
amici della 'verità'? Probabilmente lo saranno abbastanza: giacché‚
tutti i filosofi sino a oggi hanno amato le loro verità. Certo,
però, non saranno dei dogmatici. Dovrebbe essere incompatibile con
il loro orgoglio, e anche con il loro gusto, l'eventualità che la
loro verità debba ancora essere una verità per ognuno: ciò che è
stato fino a oggi il segreto desiderio e il senso recondito di
ogni aspirazione dogmatica. 'Il mio giudizio è il "mio" giudizio:
difficilmente anche un altro potrà vantare un diritto su di esso'
- dirà forse un tale filosofo dell'avvenire. Occorre sbarazzarsi
del cattivo gusto di voler andar d'accordo con molti. 'Bene' non è
più bene se suona sulla bocca del vicino. E come potrebbe mai
esistere addirittura un 'bene comune'! La parola contraddice se
stessa: quel che può essere comune, ha sempre ben poco valore.
Infine i fatti devono stare come stanno e sono sempre stati: le
cose grandi sono riservate ai grandi, gli abissi ai profondi, le
finezze e i brividi ai sottili, e per esprimerci sinteticamente
con una sola parola, ai rari le cose rare.

44. C'è bisogno, dopo tutto questo, di dire ancora espressamente
che anch'essi saranno liberi, "assai" liberi spiriti, questi
filosofi dell'avvenire fermo restando che non saranno
semplicemente dei liberi spiriti, ma qualche cosa di più, di più
grande e di fondamentalmente diverso, che non vuol essere
disconosciuto e confuso? Ma mentre vado dicendo ciò, sento verso
di loro, quasi tanto quanto verso di noi, noi che siamo i loro
araldi e precursori, noi spiriti liberi! il "dovere" di soffiar
lontano da noi, solidalmente, un antico sciocco pregiudizio ed
equivoco che troppo a lungo, come una nebbia, ha reso 'opaca' la
nozione di 'spirito libero'. In tutti i paesi d'Europa ed
egualmente in America esiste oggidì qualcosa che perpetra un abuso
riguardo a questo nome, una specie di spirito molto angusto,
prigioniero, ridotto in catene, che vuole pressappoco il contrario
di ciò che è nelle nostre intenzioni e istinti per non dire poi
che riguardo a quei "nuovi" filosofi sopravvenienti, essi non
possono essere niente più che finestre ben chiuse e porte
sprangate. Costoro appartengono, per dirla chiaro e tondo, ai
"livellatori", questi falsamente detti 'spiriti liberi' - in
quanto non sono che schiavi, loquaci e abili di penna, del gusto
democratico e delle sue 'idee moderne'; tutti quanti uomini senza
solitudine, goffi giovanotti dabbene cui non si può negare il
coraggio n‚ costumi rispettabili, salvo il fatto che sono appunto
non liberi e ridicolmente superficiali, soprattutto per la loro
tendenza fondamentale a vedere nelle forme della vecchia società
sino a oggi esistente la causa di "ogni" umana miseria e
fallimento; per cui la verità si trova felicemente capovolta! Ciò
a cui essi mirerebbero con tutte le loro forze è l'universale
verde felicità da pascolo delle greggi, con sicurezza, assenza di
pericoli, benessere, alleggerimento della vita per ognuno; i loro
due ritornelli dottrinali più largamente canticchiati si chiamano
'parità di diritti' e 'compassione per ogni sofferente' - e lo
stesso dolore viene preso da essi come un qualcosa che deve essere
"eliminato". Noi che siamo fatti a rovescio, noi che ci siamo
creati uno sguardo e una coscienza aperta per il problema del dove
e del come sia cresciuta fino a oggi più vigorosa in altezza la
pianta 'uomo' (14), riteniamo che ciò si sia sempre verificato
sotto condizioni opposte e che per questo la pericolosità della
sua situazione dovette aumentare in misura semplicemente enorme,
la sua forza inventiva e dissimulatrice (il suo 'spirito')
svilupparsi, sotto una lunga oppressione e costrizione, in
sottigliezza e temerarietà, e la sua volontà di vita potenziarsi
fino all'assoluta volontà di potenza - pensiamo che durezza,
prepotenza, schiavitù, pericoli per le strade e nel cuore,
segretezza, stoicismo, arte tentatrice e demonismo d'ogni sorta,
che tutto quanto v'è nell'uomo di malvagio, di tirannico,
dell'animale rapace e del serpente, serva all'elevazione della
specie 'uomo' altrettanto come il suo opposto e non diciamo
ancora abbastanza, se ci limitiamo a dire soltanto questo, giacché‚
in ogni caso, con tutto il nostro parlare e il nostro tacere su
questo punto, ci troviamo all'altro polo di ogni moderna ideologia
e desiderabilità per il gregge: come i suoi antipodi forse? Quale
meraviglia se noi 'liberi spiriti' non siamo proprio gli spiriti
più comunicativi? se non sentiamo il desiderio di rivelare, sotto
ogni riguardo, da "che cosa" uno spirito può affrancarsi e "verso
che cosa" quindi verrà forse spinto? E per quel che si riferisce
alla pericolosa formola 'al di là del bene e del male', con la
quale per lo meno ci salvaguardiamo dall'essere scambiati con
altri: noi "siamo" qualcosa di diverso dai 'libres penseurs',
'liberi pensatori' (15), 'Freidenker' o comunque amino chiamarsi
tutti questi bravi difensori delle 'idee moderne'. In molte
contrade dello spirito noi siamo stati di casa, o per lo meno
degli ospiti; sempre di bel nuovo siamo sgattaiolati dai gradevoli
muffiti cantucci in cui parevano confinarci predilezioni e odii
preconcetti, giovinezza, lignaggio, semplice caso di uomini e
libri, o persino la stanchezza del vagabondaggio; pieni di stizza
per gli allettamenti della dipendenza che sono celati negli onori
o nel danaro o negli uffici o nelle esaltazioni dei sensi;
riconoscenti perfino verso le penose necessità e la malattia ricca
di mutamenti poiché‚ essa ci affrancò sempre da qualsiasi regola e
dal suo 'pregiudizio', riconoscenti a Dio, al diavolo, alla pecora
e al verme dentro di noi, curiosi fino al vizio, indagatori fino
alla crudeltà, con mani senza scrupoli per l'inafferrabile, con
denti e stomaco per quel che non può essere digerito, pronti a
ogni mestiere che esiga perspicacia d'intelletto e di sensi,
pronti a tutto osare grazie a una sovrabbondanza di 'libero
volere', con anime manifeste e occulte, di cui difficilmente si
potrebbero scorgere le intenzioni ultime, con prosceni e quinte
che nessun piede riuscirebbe a percorrere sino alla fine, nascosti
sotto il mantello della luce, conquistatori anche se il nostro
aspetto è simile a quello degli eredi e dei dissipatori,
ordinatori e raccoglitori da mane a sera, avari della nostra
ricchezza e dei nostri cassetti ricolmi, parsimoniosi
nell'imparare e nel dimenticare, ingegnosi negli schemi, talvolta
orgogliosi della nostra tavola di categorie, talvolta pedanti,
talvolta gufi notturni del lavoro anche in pieno giorno; sì,
quando ce n'è bisogno, persino spauracchi - e oggi ce n'è bisogno:
giacché‚ noi siamo dalla nascita degli amici giurati e gelosi della
"solitudine", della nostra più profonda, più notturna e più
meridiana solitudine - una tale specie di uomini siamo noi,
spiriti liberi! e forse siete anche voi qualcosa di simile, voi
venturi? voi "nuovi" filosofi?