Al di là del bene e del male

Friedrich Nietzsche

CAPITOLO NONO.
CHE COS'E' ARISTOCRATICO?

257. Ogni elevazione del tipo 'uomo' è stata, fino a oggi, opera
di una società aristocratica - e così continuerà sempre a essere:
di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in
una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo
senso ha bisogno della schiavitù. Senza il "pathos della
distanza", così come nasce dalla incarnata diversità delle classi,
dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta
dominante considera sudditi e strumenti, nonché‚ dal suo
altrettanto costante esercizio nell'obbedire e nel comandare, nel
tenere in basso e a distanza, senza questo "pathos" non potrebbe
neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi
della distanza all'interno dell'anima stessa, l'elaborazione di
condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche
di tensione, più vaste, insomma l'innalzamento appunto del tipo
'uomo', l'assiduo 'autosuperamento dell'uomo', per prendere una
formola morale in un senso sovramorale. Indubbiamente, per quanto
riguarda la storia delle origini di una società aristocratica (il
presupposto, dunque, di quell'innalzamento del tipo 'uomo'), non
ci si può abbandonare ad alcuna illusione umanitaria: la verità è
dura. Diciamocelo francamente, come sino a oggi ogni civiltà
superiore è "cominciata" sulla terra! Uomini con un'indole ancora
naturale, barbari in ogni terribile significato della parola,
uomini da preda ancora in possesso di non infrante energie
volitive e bramosie di potenza, si gettarono su razze più deboli,
più ben costumate, più pacifiche, forse dedite al commercio o alla
pastorizia, o su antiche civiltà marcescenti, in cui appunto
l'ultima forza vitale fiammeggiava in rutilanti fuochi artificiali
d'intelligenza e di pervertimento. La classe aristocratica è stata
sempre, in principio, la casta barbarica: la sua preponderanza non
stava in primo luogo nella forza fisica, ma in quella psichica, -
erano gli uomini "più interi" (la qual cosa, a ogni grado,
significa anche lo stesso che 'bestia più intera').

258. Corruzione, come espressione del fatto che v'è all'interno
degli istinti la minaccia dell'anarchia e che sono scosse le
fondamenta degli affetti, cioè della 'vita': corruzione è qualcosa
di radicalmente diverso a seconda della formazione vitale in cui
si manifesta. Se, per esempio, un'aristocrazia, come quella
francese all'inizio della rivoluzione, getta via con un sublime
disgusto i suoi privilegi e sacrifica se stessa alla sfrenatezza
del proprio senso morale, questa è corruzione - fu questo,
propriamente, soltanto l'atto conclusivo di quella corruzione
perdurante da secoli, in forza della quale essa aveva poco per
volta abbandonato le sue prerogative di dominio e si era degradata
a "funzione" della regalità (e infine anche a ornamento e a
elemento da parata). L'essenziale, invece, di una buona e sana
aristocrazia è che essa "non" si avverta come funzione (sia della
regalità che della comunità), bensì come senso e come suprema
giustificazione di queste - che accolga perciò con tranquilla
coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che "per amor
suo" devono essere spinti in basso e diminuiti fino a divenire
uomini incompleti, schiavi, strumenti. La sua convinzione
fondamentale deve essere appunto questa: che la società "non" può
esistere per amore della società, bensì soltanto come
infrastruttura e impalcatura, su cui una specie prescelta di
individui è in grado di innalzarsi al suo compito superiore e
soprattutto a un "essere" superiore: a somiglianza di quelle
piante rampicanti giavanesi, avide di sole - sono chiamate "Sipo
Matador" - che avvinghiano tenacemente con le loro braccia una
quercia così a lungo e ripetutamente, che riescono infine a
dischiudere in aperta luce, alta su di essa, anche se su di essa
appoggiata, la loro corolla e a mettere così in mostra la loro
felicità.

259. Trattenerci reciprocamente dall'offesa, dalla violenza, dallo
sfruttamento, stabilire un'eguaglianza tra la propria volontà e
quella dell'altro: tutto questo può, in un certo qual senso
grossolano, divenire una buona costumanza tra individui, ove ne
siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva
somiglianza in quantità di forza e in misure di valore, nonch‚ la
loro mutua interdipendenza all'interno di "un unico" corpo). Ma
appena questo principio volesse guadagnare ulteriormente terreno,
addirittura, se possibile, come "principio basilare della
società", si mostrerebbe immediatamente per quello che è: una
volontà di "negazione" della vita, un principio di dissoluzione e
di decadenza. Su questo punto occorre rivolgere radicalmente il
pensiero al fondamento e guardarsi da ogni debolezza sentimentale:
la vita è "essenzialmente" appropriazione, offesa, sopraffazione
di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza,
imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel
più temperato dei casi, uno sfruttare - ma a che scopo si dovrebbe
sempre usare proprio queste parole, sulle quali da tempo
immemorabile si è impressa un'intenzione denigratoria? Anche quel
corpo all'interno del quale, come è stato precedentemente ammesso,
i singoli si trattano da eguali - ciò accade in ogni sana
aristocrazia - deve anch'esso, ove sia un corpo vivo e non
moribondo, fare verso gli altri corpi tutto ciò da cui
vicendevolmente si astengono gli individui in esso compresi: dovrà
essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà di
crescere, di estendersi, di attirare a s‚, di acquistare
preponderanza - non trovando in una qualche moralità o immoralità
il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso "vive",
e Perchè vita "è" precisamente volontà di potenza. In nessun
punto, tuttavia, la coscienza comune degli Europei è più
riluttante all'ammaestramento di quanto lo sia a questo proposito;
oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto scientifici
travestimenti, di condizioni di là da venire della società, da cui
dovrà scomparire il suo 'carattere di sfruttamento' - ciò suona
alle mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che
si astenesse da ogni funzione organica. Lo 'sfruttamento' non
compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso
concerne l'"essenza" del vivente, in quanto fondamentale funzione
organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di
potenza, che è appunto la volontà della vita. - Ammesso che
questa, come teoria, sia una novità - come realtà è il "fatto
originario" di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri
verso se stessi! -

260. Vagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze,
che hanno dominato fino a oggi o dominano ancora sulla terra, ho
rinvenuto certi tratti caratteristici, periodicamente ricorrenti e
collegati tra loro: cosicch‚ mi si sono finalmente rivelati due
tipi fondamentali e ne è balzata fuori una radicale differenza.
Esiste una "morale dei signori" e una "morale degli schiavi" - mi
affretto ad aggiungere che in tutte le civiltà superiori e più
ibride risultano evidenti anche tentativi di mediazione tra queste
due morali e, ancor più frequentemente, la confusione dell'una
nell'altra, nonch‚ un fraintendimento reciproco, anzi talora il
loro aspro confronto persino nello stesso uomo, dentro "la
stessa" anima. Le differenziazioni morali di valore sono sorte o
in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di benessere
acquistava coscienza della propria distinzione da quella dominata
- oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni
grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare la
nozione di 'buono', sono gli stati di elevazione e di fierezza
dell'anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e
qualificante della gerarchia. L'uomo nobile separa da s‚ quegli
individui nei quali si esprime il contrario di tali stati
d'elevazione e di fierezza - egli li disprezza. Si noti subito che
in questo primo tipo di morale il contrasto 'buono' e 'cattivo' ha
lo stesso significato di 'nobile' e 'spregevole' - il contrasto di
'buono' e '"malvagio"' ha un'altra origine. E' disprezzato il
vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa alla sua angusta
utilità; similmente lo sfiduciato, col suo sguardo servile, colui
che si rende abbietto, la specie canina di uomini che si lascia
maltrattare, l'elemosinante adulatore e soprattutto il mentitore -
è una convinzione basilare di tutti gli aristocratici che il
popolino sia mendace. 'Noi veritieri' (38) - così i nobili
chiamavano se stessi nell'antica Grecia - un fatto palmare che le
designazioni morali di valore sono state ovunque primieramente
attribuite a "uomini" e soltanto in via derivata e successiva ad
"azioni": per cui è un grave errore che gli storici della morale
prendano come punto di partenza problemi quali 'Perchè è stata
lodata l'azione pietosa?'. L'uomo di specie nobile sente "se
stesso" come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere
approvazione, il suo giudizio è 'quel che è dannoso a me, è
dannoso in se stesso', conosce se stesso come quel che unicamente
conferisce dignità alle cose, egli è "creatore di valori". Onorano
tutto quanto sanno appartenere a s‚: una siffatta morale è
autoglorificazione. Sta in primo piano il senso della pienezza,
della potenza che vuole straripare, la felicità della massima
tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e
largire - anche l'uomo nobile presta soccorso allo sventurato, ma
non, o quasi non, per pietà, bensì piuttosto per un impulso
generato dalla sovrabbondanza di potenza. L'uomo nobile onora in
se stesso il possente, nonch‚ colui che sa parlare e tacere, che
esercita con diletto severità e durezza contro se medesimo e nutre
venerazione per tutto quanto è severo e duro. 'Un duro cuore Wotan
mi ha posto nel petto' - si dice in un'antica saga scandinava: in
questo modo l'anima di un superbo vichingo ha trovato la sua
esatta espressione poetica. Un simile tipo di uomini va appunto
superbo di "non" essere fatto per la pietà: per cui l'eroe della
saga aggiunge, in tono d'ammonizione, 'chi non ha da giovane un
duro cuore, non lo avrà mai'. Nobili e prodi che pensano in questo
modo sono quanto mai lontani da quella morale che vede
precisamente nella pietà o nell'agire altruistico o nel
"desint‚ressement" l'elemento proprio di ciò che è morale; la fede
in se stessi, l'orgoglio di s‚, una radicale inimicizia e ironia
verso il 'disinteresse', sono compresi nella morale aristocratica,
esattamente allo stesso modo con cui competono a essa un lieve
disprezzo e un senso di riserbo di fronte ai sentimenti di
simpatia e al 'calore del cuore'. - Sono i potenti quelli che
"sanno" attribuire onore, è questa la loro arte, il loro dominio
inventivo. La profonda venerazione per la tarda età e per la
tradizione - l'intero diritto riposa su questa doppia venerazione
- la fede e l'opinione preconcetta a favore degli antenati e a
sfavore dei posteri sono un elemento tipico nella morale dei
potenti: e se, all'opposto, gli uomini delle 'idee moderne'
credono, quasi per istinto, al 'progresso' e all''avvenire' e sono
sempre privi di rispetto per l'età vetusta, tutto ciò è già una
spia sufficiente della origine non nobile di queste 'idee'. Ma
soprattutto una morale dei dominatori è estranea al gusto dei
contemporanei e per essi spiacevole nel rigore del suo principio,
che si hanno doveri unicamente verso i propri simili; che nei
riguardi degli individui di rango inferiore e di tutti gli
estranei sia lecito agire a proprio libito o 'come vuole il cuore'
e comunque 'al di là del bene e del male' -: è sotto quest'ultimo
aspetto che possono avere il loro posto la compassione o altre
cose del genere. La capacità e l'obbligo di una lunga gratitudine
e di una lunga vendetta - le due cose solo entro la sfera dei
propri simili - la sottigliezza nella rappresaglia, l'affinamento
dell'idea di amicizia, una certa necessità di avere dei nemici
(come canale di deflusso, per così dire, per le passioni
dell'invidia, della litigiosità, della tracotanza - in fondo per
poter essere "buoni" amici): tutti questi sono caratteri tipici
della morale aristocratica, la quale, come ho accennato, non è la
morale delle 'idee moderne', ed è per questo che oggi risulta
difficile sentirla ancora come pure disseppellirla o discoprirla.
- Diversamente stanno le cose per quanto riguarda il secondo tipo
di morale, la "morale degli schiavi". Posto che gli oppressi, i
conculcati, i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di
se stessi, facciano della morale, che cosa sarà l'elemento
omogeneo nei loro apprezzamenti di valore? Probabilmente troverà
espressione un pessimistico sospetto verso l'intera condizione
umana, forse una condanna dell'uomo unitamente alla sua
condizione. Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei
potenti: è scettico e diffidente, ha la "raffinatezza" della
diffidenza per tutto quanto di 'buono' venga tenuto in onore in
mezzo a costoro -, vorrebbe persuadersi che tra quelli la stessa
felicità non è genuina. All'opposto vengono messe in evidenza e
inondate di luce le qualità che servono ad alleviare l'esistenza
ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e
soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l'operosità,
l'umiltà, la gentilezza a esser poste in onore giacché‚ sono
queste, ora, le qualità più utili e quasi gli unici mezzi per
sopportare il peso dell'esistenza. La morale degli schiavi è
essenzialmente morale utilitaria. Ecco il focolare dove è nato
quel famoso contrasto tra 'buono' e '"malvagio"' - nell'intimo del
male si avverte la potenza e la pericolosità, una certa
terribilità, finezza e forza, che soffoca il disprezzo alle
radici. Secondo la morale degli schiavi, il 'malvagio' suscita
dunque timore; secondo la morale dei signori è precisamente il
buono a suscitare e a voler suscitare timore, mentre l'uomo
'cattivo' viene sentito come spregevole. Il contrasto giunge al
suo culmine quando, stando alle implicazioni della morale degli
schiavi, anche sui 'buoni' di questa morale finisce per cadere
un'ombra di questo disprezzo - per quanto lieve e benevolo possa
essere -, poiché‚ il buono, nell'àmbito del modo di pensare degli
schiavi, deve essere in ogni caso l'uomo "innocuo": costui è
bonario, facilmente ingannabile, un poco stupido forse, un
"bonhomme". Ovunque la morale degli schiavi abbia il sopravvento,
la lingua rivela una tendenza ad avvicinare l'una all'altra le
parole 'buono' e 'stupido'. - Un'ultima differenza basilare: il
desiderio di "libertà", l'istinto per la felicità e per le finezze
del senso di libertà appartengono tanto necessariamente alla
morale e alla moralità degli schiavi, quanto l'arte e l'entusiasmo
della venerazione, della dedizione, sono il normale indizio di
un'aristocratica maniera di pensare e di valutare - senz'altro
comprensibile da ciò Perchè l'amore "come passione" - è la nostra
specialità europea - debba essere assolutamente di origine nobile:
è noto che la sua scoperta spetta ai poeti-cavalieri provenzali, a
quegli splendidi ingegnosi uomini del 'gai saber' cui l'Europa
deve tante cose e quasi quasi se stessa.

261. La vanità fa parte di quelle cose che sono forse le più
difficili a capire per un uomo nobile: egli sarà tentato di
negarla anche là dove un diverso tipo umano riterrà di poterla
cogliere a piene mani. Per lui il problema è quello di immaginarsi
degli esseri che cercano di destare una buona opinione di s‚,
quale essi stessi non hanno - e dunque neppure 'meritano' - per
"credere" poi essi stessi a questa buona opinione. Questo modo di
procedere appare a lui, per metà, di così cattivo gusto e così
poco rispettoso per se stessi, e per l'altra metà così
baroccamente irrazionale, che preferirebbe concepire la vanità
come eccezione e dubitare di essa nella maggior parte dei casi in
cui se ne parla. Parlerà, a esempio, in questo modo: 'Posso andare
errato sul mio valore e d'altro canto pretendere che il mio
valore, così come io lo determino, venga riconosciuto anche da
altri ma questa non è vanità (piuttosto prosopopea, oppure, nei
casi più frequenti, quel che viene detto 'umiltà' o anche
'modestia')'. Oppure: 'Per molte ragioni posso rallegrarmi
dell'altrui buona opinione su di me, forse Perchè li onoro e li
amo e mi allieto di ogni loro gioia, forse anche Perchè la loro
buona opinione ratifica e conforta in me la fede nella mia propria
buona opinione, forse Perchè l'altrui buona opinione, persino nei
casi in cui io non la condivido, mi avvantaggia o mi promette
vantaggio - ma tutto questo non è vanità'. L'uomo nobile deve
innanzitutto con un atto di forza, e specialmente con l'aiuto
della storia, rendersi ben chiaro il fatto che da tempi
immemorabili, in tutti gli strati, in qualche modo subordinati,
del volgo, l'uomo comune "era" soltanto quel che "era considerato"
- per nulla avvezzo a stabilire egli stesso dei valori, neppure
attribuiva a se stesso un valore diverso da quello che gli
attribuivano i suoi signori (il vero e proprio "diritto signorile"
è quello di creare valori). Come conseguenza di un immenso
atavismo è comprensibile che anche oggi l'uomo comune continui ad
attendersi prima un'opinione su di s‚ e quindi si assoggetti
istintivamente a essa: e nient'affatto soltanto una 'buona', ma
anche una cattiva e ingiusta opinione (si pensi, per esempio, alla
maggior parte degli apprezzamenti di s‚ e delle svalutazioni di s‚
che certe donne credenti imparano dai loro confessori, e che, in
generale, il cristiano timorato apprende dalla sua Chiesa). In
realtà, conformemente al lento progredire dell'ordinamento
democratico delle cose (e della sua causa, la commistione di
sangue dei padroni e degli schiavi), il raro e originariamente
aristocratico impulso ad ascrivere a se stessi un valore,
cominciando da se medesimi, e a 'pensare bene' di s‚, sarà sempre
di più incoraggiato ed esteso: esso ha tuttavia in ogni tempo
contro di s‚ una tendenza più antica, più vasta e più radicalmente
incarnata - e nel fenomeno della 'vanità' questa tendenza più
antica signoreggerà quella più recente. Il vanitoso si rallegra di
"ogni" buona opinione che sente sul suo conto (estraniandosi del
tutto da ogni punto di vista dell'utilità di questa e prescindendo
egualmente dal fatto che essa sia vera o falsa), allo stesso modo
con cui si dispiace di ogni cattiva opinione: egli infatti si
assoggetta a entrambe, si "sente" assoggettato a esse, per
quell'antichissimo istinto di soggezione che prorompe in lui. C'è
'lo schiavo' nel sangue del vanitoso, un residuo dell'astuzia
dello schiavo -, e quanto dello 'schiavo' c'è ancor oggi, per
esempio, nella donna! -, che cerca di sedurre a buone opinioni su
di s‚; è egualmente lo schiavo a gettarsi subito dopo esso stesso
ai piedi di queste opinioni come se non fosse stato lui a
evocarle. - Per ripeterlo ancora una volta: vanità è un atavismo.

262. Una "specie" sorge, un tipo si rinsalda e si rafforza, nella
lunga lotta con condizioni "sfavorevoli" sostanzialmente uguali.
Dalle esperienze degli allevatori è viceversa noto che specie cui
venga assegnato un nutrimento sovrabbondante e, in generale, una
misura maggiore di protezione e d'assistenza, inclinano subito, in
una maniera quanto mai accentuata, alla variazione del tipo e sono
ricche di fenomeni inusitati e di mostruosità (nonch‚ di vizi
mostruosi). Si consideri ora una comunità aristocratica, a esempio
un'antica "polis" greca, oppure Venezia, come un'istituzione,
volontaria o no, destinata a dare una "disciplina educativa": vi
sono qui uomini che insieme convivono e che hanno in se stessi le
loro risorse, che vogliono realizzare la loro specie, per lo più
Perchè "devono" realizzare se stessi o Perchè attraversano lo
spaventoso pericolo d'essere estirpati. Manca qui quella
situazione di favore, quella sovrabbondanza, quella protezione
grazie alla quale è avvantaggiata la variazione; la specie ha
bisogno di s‚ come specie, come qualcosa che proprio in virtù
della sua durezza, uniformità, semplicità di forme può in generale
realizzarsi e rendersi duratura, in una assidua lotta con i vicini
o con i soggiogati, passati alla rivolta o alla minaccia di farla.
L'esperienza più multiforme le insegna a quali peculiarità in
special modo essa debba andar debitrice della sua sopravvivenza, a
dispetto degli uomini e degli dèi, debitrice per essere riuscita
continuamente vincitrice: a queste peculiarità essa impone il nome
di virtù, e soltanto queste virtù alleva e fa crescere. Compie
tutto ciò con durezza, anzi essa vuole la durezza; ogni morale
aristocratica è impaziente, nell'educazione della gioventù, nel
disporre delle donne, nelle costumanze matrimoniali, nel rapporto
tra vecchi e giovani, nelle leggi penali (che hanno di mira
esclusivamente i tralignanti) - sotto il nome di 'giustizia' essa
annovera addirittura l'impazienza tra le virtù. Un tipo con pochi
tratti, ma molto accentuati, una specie di uomini severi,
guerrieri, saggiamente taciturni, chiusi e riservati (e come tali
sensibili, nella forma più raffinata, alle grazie e alle "nuances"
della società) viene in tal guisa fissata al di là della
vicissitudine delle generazioni; la continua lotta con condizioni
"sfavorevoli" sempre eguali è, come ho detto, la causa del
fissarsi e dell'indurirsi di un tipo. Ma ecco che viene infine a
determinarsi talora una situazione fortunata, l'enorme tensione si
allenta; non ci sono forse più nemici tra i vicini e i mezzi per
la vita, come pure per il godimento della vita, esistono in misura
sovrabbondante. Il vincolo, la costrizione, dell'antica disciplina
educativa s'è d'un tratto lacerato: essa non si avverte più come
necessaria, come condizionante l'esistenza - se volesse
ulteriormente sussistere, potrebbe riuscirvi soltanto come una
forma di lusso, come un "gusto" arcaicizzante. La variazione, sia
come tralignante deviazione (in qualcosa di superiore, di più
raffinato e raro), sia come degenerazione e mostruosità, è
comparsa improvvisamente in scena nella sua massima pienezza e
magnificenza, il singolo osa essere singolo e campeggiare da solo.
A queste svolte della storia si manifestano l'uno accanto
all'altro, e spesso aggrovigliati e intricati insieme, due fatti:
da un lato, un crescere e un tendere all'alto, magnifico,
multiforme, come in una foresta vergine, una specie di celerità
"tropicale" nella gara della crescita; dall'altro, un immenso
precipitare e farsi precipitare in rovina, merc‚ gli egoismi
selvaggiamente rivolti l'un contro l'altro e, per così dire,
esplodenti, i quali lottano tra loro 'per aver luce e sole' e non
sanno più derivare dalla morale esistita fino a quel momento n‚
limite, n‚ freno, n‚ riguardo. Fu questa stessa morale ad
accumulare enormemente la forza che ha teso l'arco in un modo così
minaccioso - e ora essa è, diventa, 'sopravvissuta' - raggiunto
quel punto pericoloso e inquietante in cui la vita più grande, più
multiforme, più sterminata, "vive" al di là dell'antica morale,
"distaccandosi" da essa: c'è ora l''individuo', costretto a una
sua propria legislazione, a sue proprie arti e astuzie
d'autoconservazione, autoelevazione e autoliberazione. Soltanto
fini nuovi, soltanto mezzi nuovi, non più formole comuni,
fraintendimento e dispregio alleati tra loro, decadenza,
corruzione e le bramosie estreme strette in un nodo spaventevole,
il genio della razza traboccante da tutte le cornucopie del bene e
del male, una funesta contemporaneità di primavera e autunno,
colma di nuove lusinghe e veli, che sono propri del recente
pervertimento, ancora inesaurito, ancora inesausto. Ecco
nuovamente il pericolo, il padre della morale, il grande pericolo,
questa volta trasferito nell'individuo, nel prossimo e nell'amico,
nella strada, nel proprio bambino, nel proprio cuore, in tutto
quanto, nel desiderio e nel volere, è più segreto e più nostro:
che avranno ora da predicare i filosofi della morale apparsi
all'orizzonte in questo tempo? Essi scoprono, questi acuti
osservatori e fannulloni, che presto saremo alla fine, che tutto
intorno a loro si corrompe e fa corrompere, che niente si mantiene
in piedi fino all'indomani, salvo una specie di uomini, gli
inguaribilmente "mediocri". Solo i mediocri hanno la speranza di
continuare, di perpetuarsi - sono essi gli uomini del futuro, i
soli a sopravvivere; 'siate come loro! divenite mediocri!' dice
ormai l'unica morale che ha ancora un senso, che trova ancora
ascolto. Ma è difficile da predicare, questa morale della
mediocrità! - anzi essa non può mai confessare quel che è e quel
che vuole! deve parlare di misura e dignità, di dovere e amore del
prossimo - avrà un bel da fare "a dissimulare l'ironia!" -

263. Esiste un "istinto per il rango", che più di qualsiasi altra
cosa è già il segno di un "rango elevato"; esiste un "piacere"
della venerazione, in tutte le sue "nuances", che fa indovinare
origini e abitudini aristocratiche. Squisitezza, bontà e
superiorità di un'anima vengono messe pericolosamente alla prova,
se le passa vicino un qualcosa che è di primo rango, ma che ancora
non è protetto, merc‚ i brividi dell'autorità, da importuni
brancicamenti e goffaggini: qualcosa che va per la sua strada,
senza contrassegni, non scoperto, tentatore, forse volontariamente
velato e mascherato come una vivente pietra di paragone. A
chiunque spetti il compito e l'esercizio dell'indagare anime, sarà
utile, in svariate forme, appunto quest'arte, per stabilire il
valore ultimo di un'anima, la gerarchia innata e inamovibile a cui
essa appartiene: la metterà alla prova nel suo "istinto di
venerazione". "Diff‚rence engendre haine": la volgarità di molte
nature sprizza fuori all'improvviso come acqua sudicia se un
qualche sacro vaso, un qualche prezioso bene che esce da chiusi
scrigni, un qualche libro coi segni del grande destino le vengono
fatti passare dinanzi; mentre invece esiste un involontario
ammutolirsi, un'esitazione allo sguardo, un comporsi del gesto, in
cui si esprime il fatto che un'anima "sente" la vicinanza di
quanto è massimamente degno di venerazione. La maniera con cui è
stata sino a oggi complessivamente mantenuta viva in Europa la
venerazione per la "Bibbia" è forse la migliore testimonianza di
disciplina formativa e d'affinamento dei costumi di cui l'Europa
sia debitrice al cristianesimo: libri come questi, di tale
profondità e così estremamente significativi, esigono, per la loro
protezione, una tirannide dell'autorità proveniente dall'esterno,
allo scopo di conquistare una "durata" di millenni necessari a
esaurirli e a decifrarli. Si è raggiunto molto, se si arriva
infine ad instillare nella grande moltitudine (nei bambinelli
superficiali e lesti di ogni specie) il senso che non le è lecito
toccare tutto: che esistono esperienze sacre dinanzi alle quali
deve togliersi le scarpe e tener lontano la sua sudicia mano - è
questa quasi la sua suprema elevazione all'umanità. All'opposto,
nei cosiddetti dotti, nei credenti delle 'idee moderne', non v'è
forse nulla che abbia un effetto così nauseante come la loro
mancanza di pudore, la loro comoda improntitudine di sguardo e di
mano, con la quale ogni cosa viene da loro toccata, leccata,
brancicata; ed è possibile che oggigiorno nel popolo, nel basso
popolo, segnatamente tra i contadini, si continui ancora a trovare
una "relativa" nobiltà di gusto e un tatto della venerazione più
che nel "demimonde" dello spirito, lettore di gazzette, nei dotti.

264. E' incancellabile dall'anima di un uomo quello che i suoi
antenati hanno amato fare più di qualsiasi altra cosa e nel modo
più costante: sia che essi fossero, a esempio, assidui
risparmiatori, addetti a una scrivania o a una cassaforte,
moderati e borghesi nei loro desideri, moderati persino nelle loro
virtù; sia che vivessero abituati mane e sera al comando, propensi
a rozzi piaceri e accanto a questi, forse, a doveri e
responsabilità ancora più rozzi; sia che avessero finito per
sacrificare, a un certo momento, antichi privilegi di nascita e di
proprietà allo scopo di vivere interamente per la loro fede - per
il loro 'Dio' -, essendo individui dalla coscienza implacabile e
delicata, che arrossisce di ogni accomodamento. E' del tutto
impossibile che un uomo "non" porti incarnate le qualità e le
predilezioni dei suoi genitori e dei suoi avi: checch‚ possa dire
in contrario l'apparenza. E' questo il problema della razza. Posto
che si sappia qualcosa intorno ai genitori, è lecita un'illazione
riguardo al figlio: certa ripugnante incontinenza, certa meschina
invidia, una grossolana maniera di darsi ragione - e sono tutte e
tre queste qualità ad aver costituito, in ogni tempo, il
caratteristico tipo plebeo -, devono trapassare nel figlio così
sicuramente come il sangue guasto; e con l'aiuto della migliore
educazione e cultura si arriverà appunto soltanto a "creare
illusioni" sul conto di una siffatta ereditarietà. - Che cos'altro
vogliono oggidì educazione e cultura? Nella nostra epoca molto
popolare, intendo dire plebea, 'educazione' e 'cultura' "devono"
essere essenzialmente l'arte di creare illusioni sull'origine - di
allontanare con illusioni dalla propria origine la plebaglia
ereditaria nella carne e nell'anima. Un educatore che oggi
predicasse veracità soprattutto e gridasse continuamente ai suoi
discepoli: 'Siate veri! mostratevi come siete!' - persino un
siffatto asino virtuoso e candido imparerebbe dopo qualche tempo a
dar piglio alla famosa "furca" oraziana (39), al fine di "naturam
expellere": con quale risultato? La 'plebe' "usque recurret". -

265. A rischio di dispiacere a orecchie innocenti, questo è per me
un fatto: l'egoismo è compreso nell'essenza dell'anima
aristocratica, intendo dire quella fede irremovibile che a esseri
'quali noi siamo' altri esseri debbano per natura restare
sottomessi e sacrificare se medesimi. L'anima aristocratica
accoglie questo dato di fatto del proprio egoismo senza alcun
interrogativo e senza peraltro avvertirvi un senso di durezza, di
costrizione, d'arbitrio, ma piuttosto come un qualcosa che può
avere il suo fondamento nella legge originaria delle cose: - se
cercasse di dare un nome a ciò, direbbe che 'è la giustizia
stessa'. In circostanze che sul principio la fanno esitare,
riconosce in cuor suo che esistono esseri i quali hanno i suoi
medesimi diritti; ma appena codesta questione del rango le è
chiara, si muove tra questi suoi uguali, dotati di uguali diritti,
con la stessa sicurezza di pudore e di delicato rispetto che le è
propria nei suoi rapporti con se stessa - coerentemente a
un'innata meccanica celeste che tutti gli astri conoscono. E' una
testimonianza "ulteriore" del suo egoismo, questa finezza e questa
autolimitazione nel commercio coi suoi simili - ogni astro ha un
siffatto egoismo -: "onora "se stessa" in quelli e nei diritti che
concede a costoro, non dubita che lo scambio di onori e di
diritti, in quanto "essenza" di ogni rapporto, rientri egualmente
nello stato naturale delle cose. L'anima aristocratica dà allo
stesso modo con cui prende, sulla base dell'istinto appassionato e
sensibile del contraccambio che è insito nel suo fondo. "Inter
pares", il concetto di 'grazia' non ha senso e gradevole odore;
può anche darsi che esista una maniera sublime di rassegnarsi, per
così dire, a doni inviati dall'alto e di abbeverarsene quasi
fossero stille d'acqua per un assetato: ma per quest'arte e
atteggiamento l'anima aristocratica non ha alcuna abilità. Su
questo punto le è di impedimento il suo egoismo: in genere non ama
guardare verso 'l'alto' - ma "davanti" a s‚, in senso orizzontale
e con lentezza, oppure in basso - "essa si sa in alto".

266. 'Soltanto di colui che non "cerca" se stesso si può nutrire
una stima verace'. Goethe al consigliere Schlosser.

267. Esiste tra i Cinesi un proverbio, che le madri insegnano
anche ai loro bambini: "siao-sin" 'fa' piccolo il tuo cuore!'. E'
questa la caratteristica tendenza di fondo delle civiltà tarde:
non v'è dubbio per me che un greco antico riconoscerebbe anche in
noi Europei di oggi, prima d'ogni altra cosa, il rimpicciolimento
di noi stessi e basterebbe già questo a renderci 'non di suo
gusto'.

268. Che cos'è infine la volgarità? - Le parole sono notazioni per
indicare concetti; ma i concetti sono segni più o meno figurati
per indicare sensazioni spesso ritornanti e ritornanti assieme,
per gruppi di sensazioni. Non basta ancora, per comprendersi l'un
l'altro, che si usino le stesse parole; occorre usare le stesse
parole anche per lo stesso genere di esperienze interiori,
occorre, infine, avere vicendevolmente "in comune" la propria
esperienza. Perciò gli individui di "un unico" popolo si
comprendono tra loro meglio di quelli appartenenti a popoli
diversi, anche quando costoro si servono dello stesso linguaggio;
o piuttosto, quando esseri umani hanno vissuto insieme a lungo in
condizioni eguali (di clima, di terreno, di pericolo, di bisogni,
di lavoro), "nasce" da tutto ciò qualcosa che 'si comprende', un
popolo. In tutte le anime un eguale numero di esperienze spesso
ritornanti ha preso il sopravvento su altre esperienze
verificantisi più di rado: sulla base di queste ci si comprende
rapidamente e sempre più rapidamente - la storia del linguaggio è
la storia di un processo d'abbreviazione -; sulla base di questa
rapida comprensione ci si lega strettamente, sempre più
strettamente. Quanto più grande è la condizione di pericolo, tanto
più grande è il bisogno di accordarsi facilmente e rapidamente su
quel che è necessario; non fraintendersi nel pericolo è ciò di cui
gli uomini non possono assolutamente fare a meno per i loro
rapporti. Si fa questa prova anche in ogni amicizia e relazione
amorosa: nulla di tutto questo ha durata, appena si scopre che uno
dei due, pur dicendo le stesse parole, sente, pensa, sospetta,
desidera, teme in modo diverso dall'altro. (La paura dell''eterno
fraintendimento': è questo quel benevolo genio che tanto spesso
trattiene persone di sesso diverso da unioni troppo affrettate, a
cui consigliano sensi e cuore - e "non già" un qualsivoglia
schopenhaueriano 'genio della specie' -!). Quel gruppo di
sentimenti che all'interno dell'anima è più rapido nel destarsi,
nel prendere la parola, nel dare ordini, decide sull'intera
gerarchia dei suoi valori e finisce per determinare la sua tavola
di beni. Le valutazioni di un uomo tradiscono in parte la
"struttura" della sua anima e denotano in che cosa essa ravvisa le
sue condizioni vitali, le sue peculiari necessità. Posto adunque
che le necessità abbiano da tempo immemorabile avvicinato tra loro
solo uomini che potevano indicare con segni eguali eguali bisogni,
eguali esperienze, ne risulta, in totale, che la facile
"comunicabilità" delle necessità, vale a dire, in definitiva,
l'esperienza di eventi interiori esclusivamente di livello medio e
"comuni", deve essere stata la più violenta tra tutte le forze che
hanno tenuto in loro balìa gli uomini sino a oggi. Gli uomini più
simili e più ordinari sono stati e sono sempre in vantaggio,
quelli più eletti, più raffinati, più singolari, i più
difficilmente comprensibili, restano facilmente soli,
soggiacciono, nel loro isolamento, alle sciagure e di rado si
trapiantano. Occorre appellarci a immense forze contrarie, per
potersi opporre a questo naturale, troppo naturale "progressus in
simile", la prosecuzione dell'uomo nel simile, nel consueto, nel
medio, nel gregario - nel "volgare"! -

269. Quanto più uno psicologo - uno psicologo e un divinatore-di-
anime costituzionalmente e inevitabilmente tale - si rivolge ai
casi e agli uomini più fuori del comune, tanto maggiore diventa il
suo pericolo di restar soffocato dalla pietà: costui ha bisogno di
durezza e di giocondità, più di qualsiasi altro uomo. Il
pervertimento, il crollo degli uomini superiori, delle anime di
indole più ignota, è infatti la regola: è terribile aver sempre
sotto gli occhi una siffatta regola. Il multiforme martirio dello
psicologo, che ha scoperto questo ruinare, che già ha scoperto una
volta e poi "quasi" sempre torna di nuovo a scoprire questa totale
interiore 'insanabilità' dell'uomo superiore, questo eterno
'troppo tardi' in ogni senso, attraverso l'intera storia - potrà
forse diventare un bel giorno la causa del suo rivolgersi con
amarezza contro il suo proprio destino e del tentativo
d'autodistruzione che egli metterà in atto - potrà essere causa
del suo stesso 'pervertirsi'. Si avvertirà quasi in ogni psicologo
una rivelatrice compiaciuta inclinazione a entrare in rapporto con
gente comune e ben ordinata: ciò è una spia del fatto che egli ha
sempre bisogno di un risanamento, che necessita di una specie di
fuga e d'oblio, lontano da tutto quello che le sue intime
penetrazioni e incisioni, il suo 'mestiere', gli hanno fatto
pesare sulla coscienza. E' una sua caratteristica la paura della
propria memoria. Facilmente diventa muto dinanzi al giudizio
altrui: immoto in volto, ascolta come, dove egli ha "veduto", là
si venera, si ammira, si ama, si trasfigura oppure nasconde anche
il suo mutismo, consentendo espressamente con una qualche opinione
in vista. La paradossalità della sua situazione si spinge forse
così lontano nell'orrido, che la moltitudine, i dotti, i visionari
apprendono dal canto loro la grande venerazione, proprio là dove
egli ha imparato la grande pietà accanto al grande disprezzo - la
venerazione per 'grandi uomini' e prodigiosi animali, per amore
dei quali si benedice e si onora la patria, la terra, la dignità
dell'umanità, se stessi, e a cui si rimanda la gioventù per la sua
educazione... E chissà che fino a oggi in tutti i grandi
avvenimenti non si sia verificata appunto la stessa cosa: che la
moltitudine abbia adorato un dio - e che il 'dio' sia stato
soltanto una povera vittima sacrificale! Il successo è sempre
stato il più grande dei mentitori - e l''opera' stessa è un
successo; il grande statista, il conquistatore, lo scopritore si
travestono con le proprie creazioni sino a rendersi
irriconoscibili; l''opera', quella dell'artista, del filosofo,
inventa per prima cosa colui che l'ha creata, che deve averla
creata; i 'grandi uomini', quali sono oggetto di venerazione, sono
piccole brutte poesie composte più tardi; nel mondo dei valori
storici "domina" la fabbricazione di monete false. Questi grandi
poeti, a esempio questi Byron, Musset, Poe, Leopardi, Kleist,
Gogol', così come son fatti, come forse devono essere: uomini
dell'attimo, esaltati, sensuali, bambineggianti, sconsiderati e
subitanei nella sfiducia e nella fiducia; con anime avvezze a
tener celata una qualche crepa; uomini che spesso, nelle loro
opere, si prendono vendetta di una interiore sozzura, che spesso,
nei loro slanci, cercano l'oblio di una memoria troppo fedele,
spesso smarriti nella melma e quasi innamorati di essa, al punto
di assomigliare ai fuochi fatui erranti intorno alle paludi e di
"fngersi" stelle - il popolo allora li chiama idealisti , spesso
in lotta con un lungo disgusto, con un fantasma, ognor ritornante,
d'incredulità che li rende gelidi e li costringe a spasimare per
la "gloria" (40) e a divorare la 'fede in se stessi' prendendola
dalle mani di ebbri lusingatori - quale martirio sono questi
grandi artisti e uomini superiori in generale, per colui che li ha
decifrati una volta! E' comprensibile che proprio da parte della
donna - la quale è chiaroveggente nel mondo del dolore e purtroppo
bramosa di aiutare e di salvare anche molto al di là delle proprie
forze - costoro vengano a sperimentare, con tanta facilità, quei
trasporti di sconfinata "pietà", carica di estrema abnegazione,
che la moltitudine, soprattutto la moltitudine venerante, non
comprende e aggrava di commenti incuriositi e fatui. Questa pietà
incorre regolarmente in illusioni riguardo alla sua forza: la
donna vorrebbe credere che l'amore possa "tutto" - è la sua
particolare fede. Ahimè, colui che ha la sapienza del cuore
indovina quanto povero, sprovveduto, pretenzioso, fallace, più
facilmente distruttivo che salvatore sia anche il migliore e più
profondo amore! E' possibile che sotto la favola sacra e il
travestimento della vita di Gesù sia celato uno dei più dolorosi
casi di martirio della "sapienza intorno all'amore": il martirio
del cuore più innocente e più bramoso, che nessun amore umano
avrebbe mai potuto colmare, che "pretendeva" d'amare e d'essere
amato e null'altro, con durezza, forsennatamente, con terribili
scatti contro coloro che rifiutavano amore; la storia di un povero
insaziato e insaziabile nell'amore, che dovette inventare
l'inferno per spedirvi coloro che non lo "volevano" amare - e che
infine, divenuto sapiente intorno all'amore umano, dovette
inventare un dio che è tutto amore, tutto "potenza" d'amore - che
ha pietà dell'amore umano, essendo esso così miserabile, così
insipiente! Chi sente a questo modo, chi ha una siffatta
esperienza intorno all'amore - "cerca" la morte. - Ma Perchè
perdersi dietro a queste cose dolorose? Ammesso che non si debba
farlo.

270. Lo spirituale orgoglio e il disgusto di ogni individuo che ha
profondamente sofferto - sino a "quale" profondità possano
soffrire gli uomini è un fatto che quasi determina la gerarchia -,
la sua abbrividente certezza, della quale è tutto permeato e ha
assunto il colore, di "sapere", in virtù della propria sofferenza,
più di quanto possano sapere i più accorti e i più saggi; certezza
di essere stato conosciuto e 'di casa', una volta, in molti
lontani orribili mondi, di cui 'voi tutto ignorate!'... questo
spirituale taciturno orgoglio del sofferente, questa superbia
dell'eletto della conoscenza, dell''iniziato', del quasi offerto
in sacrificio, trova necessaria ogni forma di travestimento per
proteggersi dal contatto di mani invadenti e compassionevoli, e
soprattutto da tutti coloro che non sono suoi simili nel dolore.
La profonda sofferenza rende nobili; essa divide. Una delle più
raffinate forme di travestimento è l'epicureismo e una certa
prodezza del gusto, messa da quel momento in evidenza, la quale
prende con leggerezza la sofferenza e si mette in guardia contro
ogni cosa triste e profonda. Esistono 'uomini sereni' che si
servono della serenità, Perchè a cagione di essa vengono fraintesi
- costoro "vogliono" essere fraintesi. Esistono 'uomini di
scienza' che si servono della scienza, Perchè dà un aspetto sereno
e Perchè la scientificità porta a concludere che l'uomo è
superficiale - essi "vogliono" sedurre a una falsa conclusione.
Esistono spiriti liberi, audaci, che vorrebbero nascondere e
negare di essere cuori infranti, superbi, immedicabili; e talvolta
la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo
certo. - Donde risulta che si addice a una più raffinata umanità
serbar reverenza 'di fronte alla maschera' e non esercitare
psicologia e curiosità nel punto sbagliato.

271. Quel che nel modo più profondo divide due uomini è un diverso
senso e grado della pulizia. A che serve ogni lealtà e vicendevole
utilità, a che serve tutta la buona volontà dell'uno per l'altro:
la cosa, in definitiva, finisce lì - essi 'non si possono
soffrire!'. Il supremo istinto della pulizia pone colui che ne è
affetto nel più inusitato e pericoloso isolamento, quasi fosse un
santo: giacché‚ è appunto questa la santità - la massima
spiritualizzazione di detto istinto. Un certo essere consapevoli
di un'indescrivibile pienezza nella felicità del bagno, una certa
smania e sete che sospingono costantemente l'anima dalla notte al
mattino, dal torbido, dalla 'tribolazione' al chiaro, al
luccicante, al profondo, al sottile -: nella stessa misura in cui
una tale inclinazione "contraddistingue" - è un'inclinazione
aristocratica - essa divide. - La compassione del santo è la
compassione per la "sozzura" dell'umano, troppo umano. Ed esistono
gradi e altezze in cui la stessa compassione è da lui sentita come
contaminazione, come sozzura...

272. Segni della nobiltà: non pensar mai a degradare i propri
doveri a doveri di ognuno; non voler cedere, non voler dividere la
propria responsabilità; annoverare tra i "doveri" i propri
privilegi e il loro esercizio.

273. Un uomo che anela a grandi cose, considera chiunque incontri
sul proprio cammino o come mezzo o come remora e impiccio - oppure
come un temporaneo sofà. La sua caratteristica "affabilità" di
alta levatura nei riguardi dei propri simili gli è possibile
soltanto se egli resta alla propria altezza e li domina.
L'impazienza e la sua coscienza di essere stato fino a quel
momento sempre condannato alla commedia - giacché‚ anche la guerra
è e nasconde una commedia, così come ogni mezzo nasconde uno scopo
gli guastano ogni rapporto: questa specie di uomini conosce la
solitudine e quel che essa ha in s‚ di più velenoso.

274. "Il problema degli aspettanti". - Sono necessari colpi di
fortuna, nonch‚ molte specie di cose incalcolabili, Perchè un uomo
superiore, in cui dorme la soluzione di un problema, riesca ancora
ad agire al momento giusto - 'a esplodere', come si potrebbe dire.
Ciò di regola "non" accade, e in ogni angolo della terra stanno
seduti coloro che attendono, ma che a malapena sanno fino a che
punto aspettano, ma ancor meno poi che aspettano inutilmente.
Talvolta anche la voce del risveglio giunge troppo tardi, quel
caso che dà 'il permesso' di agire - quando cioè già è consumato
il meglio della giovinezza e della loro forza d'azione per via del
loro starsene sempre seduti; e quanti appunto, allorquando
'balzarono in piedi', sentirono con orrore intorpidite le loro
membra e già greve il loro spirito! 'E' troppo tardi!' - si
dissero, senza più fede in se stessi e ormai inutili per sempre.
Nel regno del genio dovrebbe forse essere non già l'eccezione, ma
la regola, il 'Raffaello senza mani' (41), prendendo
quest'espressione nel senso più ampio? - Forse il genio non è per
nulla così raro: lo sono le cinquecento "mani" di cui ha bisogno
per tiranneggiare il "kairos", 'il momento giusto', - per
acciuffare il caso!

275. Chi non "vuole" vedere l'altezza di un uomo, tanto più
acuisce lo sguardo verso quel che di lui è basso e in evidenza e
tradisce, con ciò, se stesso.

276. In ogni specie di ferita e di perdita l'anima inferiore e più
rozza si trova meglio di quella nobile: i pericoli di quest'ultima
devono essere più grandi, la sua probabilità di incorrere nella
sventura e di andarsene in rovina, data la multiformità dei suoi
condizionamenti vitali, è addirittura enorme. - In una lucertola
l'arto, che sia andato perduto, ricresce: non così nell'uomo. -

277. - Molto male! Sempre la vecchia storia! Quando si è finito di
costruire la propria casa, ci si accorge di avere in quel lavoro
inopinatamente imparato qualcosa, che si avrebbe "dovuto"
assolutamente sapere prima di cominciare a costruire. L'eterno
funesto 'troppo tardi'! La melanconia di tutto quanto è "portato a
fine"!...

278. - Chi sei tu, viandante? Ti vedo andare per la tua strada,
senza scherno, senza amore, con uno sguardo indecifrabile; umido e
triste come uno scandaglio che da ogni profondità riemerge
insaziato alla luce - che cosa cercava là sotto? - con un petto
che non sospira, con un labbro che cela il suo disgusto, con una
mano che afferra ormai solo con lentezza: chi sei tu? che cosa hai
fatto tu? Riposati qui: questo luogo è ospitale per ognuno -
ristorati! E chiunque tu sia: che cosa gradisci ora? Che cosa ti
serve per ristorarti? Non hai che a dirlo: quel che ho, te lo
offro! - 'Per ristorarmi? Per ristorarmi? Oh curioso che sei, che
vai mai dicendo? Ma dammi, ti prego - - '. Cosa? Cosa? Parla! -
'Una maschera ancora! una seconda maschera!'...

279. Quando gli uomini dalla profonda tristezza sono felici, si
tradiscono: hanno un modo d'afferrare la gioia come se volessero
schiacciarla e soffocarla per gelosia - ah, sanno fin troppo bene
che da loro via se ne fugge!

280. 'Male! male! Come? Se ne sta forse tornando... indietro?'.
Sì! Ma lo comprendete male, se vi lagnate di ciò. Arretra, ma a
somiglianza di chiunque voglia spiccare un gran salto...

281. 'Mi crederanno? ma io pretendo che mi si creda: ho pensato a
me, ho riflettuto su di me sempre soltanto malamente e solo in
rarissimi casi, solo Perchè costretto, sempre senza piacere 'per
la faccenda', pronto a divagare da 'me', sempre senza fiducia nel
risultato, grazie a un'incoercibile diffidenza verso la
"possibilità" della conoscenza di s‚; diffidenza che mi ha
condotto così lontano da avvertire persino nel concetto di
'conoscenza immediata', che si permettono i teoretici, una
"contradictio in adjecto" - tutto questo dato di fatto è quasi la
cosa più sicura che io so di me. Deve esserci in me una specie di
ripugnanza a "credere" qualcosa di determinato al mio riguardo. -
Sta forse annidato un enigma in tutto questo? Può darsi: ma
fortunatamente non un enigma per i miei propri denti. Forse tutto
ciò tradisce la specie alla quale appartengo? - Ma non per me: e
mi torna abbastanza a proposito -'.

282. 'Ma che ti è successo?'. - 'Non lo so' - disse esitando;
'forse le Arpie mi sono volate sulla mensa'. - Accade talvolta,
oggigiorno, che un uomo mite, moderato, schivo sia preso da una
furia improvvisa, mandi i piatti in frantumi, rovesci la tavola,
sbraiti, imperversi, ingiuri tutti e che alla fine si ritiri in
disparte vergognoso, furibondo contro se stesso - dove? e a che
scopo? Per morir di fame appartato da tutti? Per restar soffocato
dai propri ricordi? - Chi ha le brame di un'anima elevata e
delicata e solo di rado trova apparecchiata la sua mensa e pronto
il suo cibo, incorrerà in ogni tempo in un grande pericolo: ma
oggigiorno questo pericolo è straordinario. Sbalestrato in
un'epoca rumorosa e plebea, con cui non ama mangiare da "una sola"
scodella, può facilmente morire di fame e di sete, oppure, nel
caso che, a onta di ciò, finisca per 'allungare le mani' - per una
subitanea nausea. Probabilmente tutti noi abbiamo già seduto a
tavole cui non appartenevamo: e proprio i più spirituali tra noi,
che sono i più difficili da nutrire, conoscono quella pericolosa
"dyspepsia" che ha origine da una cognizione e da una delusione
improvvisa riguardo al nostro cibo e ai nostri vicini di tavola -
la "nausea postprandiale".

283. E' un raffinato, e al tempo stesso aristocratico,
autodominio, posto che si voglia in genere lodare, il lodare
sempre solo allorquando "non" si è d'accordo - diversamente si
loderebbe per l'appunto se stessi, cosa che contraddice il buon
gusto - un autodominio, senza dubbio, che offre garbatamente
occasione e motivo per essere "costantemente" fraintesi. Per
poterci permettere il vero lusso di questo gusto e di questa
moralità, non si deve vivere tra i babbei dello spirito, sibbene
tra uomini, presso i quali fraintendimenti ed errori sono ancora,
per la loro finezza, motivo di spasso - oppure lo si dovrà pagar
caro! - 'Egli mi loda: "dunque" mi dà ragione' - questa deduzione
asinina a noi eremiti guasta metà della vita, giacché‚ porta gli
asini tra i nostri vicini e amici.

284. Vivere con una immensa e superba imperturbabilità; sempre al
di là -. Avere e non avere a proprio talento le nostre passioni,
il nostro pro e contro, concederci per qualche ora a esse, su di
esse assiderci come su cavalli o spesso come su asini - si deve
infatti saper utilizzare tanto la loro stupidità quanto il loro
fuoco. Conservarci i nostri trecento prosceni; e pure gli occhiali
neri: giacché‚ esistono casi in cui nessuno deve guardarci negli
occhi e ancor meno nei nostri 'fondali'. E sceglierci per compagno
quel vizio birboncello e gioviale che ha nome cortesia. E restare
padroni delle nostre quattro virtù, coraggio, perspicacia,
simpatia, solitudine. La solitudine è infatti presso di noi una
virtù, in quanto sublime inclinazione e trasporto per la pulizia,
i quali indovinano come nel contatto tra uomo e uomo - 'in
società' - debba risultare un'inevitabile mancanza di pulizia.
Ogni comunità rende in qualche modo, in qualche cosa, in qualche
momento 'volgari'.

285. I più grandi avvenimenti e pensieri - ma i più grandi
pensieri sono i più grandi avvenimenti - vengono compresi quanto
mai tardi; le generazioni che sono a essi contemporanee non hanno,
di questi avvenimenti, un'"esperienza intima" - vivono passandovi
accanto. Accade qui qualcosa di simile a quel che succede nel
regno degli astri. La luce delle stelle più lontane giunge assai
in ritardo agli uomini, e prima che sia arrivata, l'uomo "nega"
che "laggiù" - esistano stelle. 'Quanti secoli occorrono a uno
spirito per essere compreso?' - anche questo è un criterio di
misura e con ciò si crea altresì una gerarchia e un'etichetta,
come è necessario: per spirito e stella. -

286. 'Qui la vista è sgombra, lo spirito sollevato' (42) - Ma
esiste una specie opposta di uomini, che sono altresì sulla vetta
e hanno pure la vista sgombra - tuttavia guardano "in basso".

287. - Che cos'è nobile? Che cosa significa ancor oggi la parola
'nobile'? Da che cosa si tradisce, in che cosa si riconosce, sotto
questo greve velato cielo della incipiente signoria della plebe,
per opera della quale tutto diventa opaco e plumbeo, l'uomo
nobile? (43) - Non sono le azioni che lo attestano - le azioni
sono sempre ambigue, sempre insondabili -; non sono neppure le
'opere'. Si trova oggi, tra gli artisti e i dotti, un buon numero
di persone che attraverso le loro opere rivelano come una profonda
brama li incalzi verso quel che è nobile: ma proprio questo
bisogno "verso" la nobiltà è radicalmente diverso dai bisogni
della stessa anima nobile, ed è addirittura l'eloquente e
pericoloso segno distintivo della sua mancanza. Non sono le opere,
è la "fede" che su questo punto decide, che qui stabilisce la
gerarchia, per adottare nuovamente un'antica formola religiosa in
un senso nuovo e più profondo: una certa sicurezza di base che
un'anima nobile ha riguardo a se stessa, qualcosa che non si può
cercare n‚ trovare e forse neppure perdere. - "L'anima nobile ha
un profondo rispetto per se stessa". -

288. Esistono uomini che inevitabilmente hanno spirito, comunque
vogliano tergiversare e tenere le mani dinanzi agli occhi
rivelatori (come se la mano non fosse rivelatrice!): in
conclusione risulta sempre che essi hanno qualcosa che nascondono,
vale a dire spirito. Uno dei mezzi più raffinati per ingannare, se
non altro, quanto più a lungo possibile, o per fingersi con
successo più stupidi di quel che si è - cosa che nella vita comune
spesso è tanto desiderabile quanto un ombrello -, è chiamato
entusiasmo: aggiungendovi quel che è implicito in esso, per
esempio la virtù. Come dice infatti Galiani, che doveva saperlo -:
"vertu est enthousiasme" (44).

289. Negli scritti di un eremita si ode ancor sempre qualcosa come
la eco del deserto, qualcosa dei bisbigli e del timido guardarsi
attorno della solitudine; dalle sue più forti parole, dal suo
stesso grido affiora ancora una nuova e più pericolosa specie di
silenzio, di tacita segretezza. Chi di anno in anno, ogni giorno e
ogni notte, è stato in un intimo contrasto e colloquio con l'anima
sua, chi nella sua caverna - può essere un labirinto, ma anche una
miniera d'oro - è divenuto un orso antidiluviano o un
disseppellitore o un custode di tesori e un drago, finisce per
ricevere, persino nelle sue idee, un tono di luce crepuscolare, un
profumo tanto d'abisso che di muffa, qualcosa di incomunicabile e
di ripugnante che investe con un soffio gelido chiunque gli passi
accanto. L'eremita non crede che un filosofo - posto che un
filosofo sia sempre stato, prima di tutto, un eremita - abbia mai
espresso in libri le sue intime ed estreme opinioni: non si
scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si
custodisce dentro di s‚? - dubiterà, anzi, che un filosofo "possa"
avere in generale 'estreme e intime' opinioni, pensando invece che
ci sia in lui, dietro ogni caverna, una caverna ancor più profonda
- un mondo più vasto, più strano, più ricco al di sopra d'una
superficie, un abisso sotto ogni fondo, sotto ogni 'fondazione'.
Ogni filosofia è filosofia di proscenio - questo è un giudizio da
eremita: 'V'è qualcosa di arbitrario nel fatto che "costui" si sia
arrestato "qui", abbia rivolto lo sguardo indietro e intorno a s‚,
non abbia, "qui", scavato più profondamente e abbia messo in
disparte la vanga - c'è pure qualcosa di sospetto in tutto ciò'.
Ogni filosofia "nasconde" anche una filosofia; ogni opinione è
anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera.

290. Ogni pensatore profondo teme più di venir compreso che di
venir frainteso. Di quest'ultima cosa soffre, forse, la sua
vanità; della prima, invece, il suo cuore, la sua simpatia, che
dice sempre: 'Ahimè, Perchè volete voi subire il mio stesso
"peso"?'

291. L'uomo, un animale multiforme, mendace, artefatto e non
trasparente, inquietante per gli altri animali più per l'astuzia
che per la forza, ha inventato la tranquilla coscienza per godere
infine una volta della "semplicità" della propria anima; e
l'intera morale è una coraggiosa, lunga falsificazione, in virtù
della quale è possibile, in generale, godere lo spettacolo
dell'anima. Sotto questo punto di vista sono forse ricomprese nel
concetto di 'arte' molte più cose di quanto comunemente si crede.

292. Un filosofo: un uomo, cioè, che costantemente vive, vede,
ascolta, sospetta, spera, sogna cose fuori dell'ordinario; che
viene còlto dai suoi stessi pensieri quasi dal di fuori, dall'alto
e dal basso, come da quel genere di avvenimenti e di fulmini che è
"suo proprio"; e forse è egli stesso una procella che si avanza
gravida di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale c'è
sempre un brontolio e un rovinio, qualcosa che si cretta e
sinistramente accade. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso
sfugge a se stesso, spesso ha timore di s‚ - tuttavia è troppo
curioso per non 'tornare' sempre di nuovo 'a s‚'...

293. Un uomo che dice: 'Questo mi piace, lo faccio mio e voglio
difenderlo contro tutti'; un uomo che sa sostenere una causa,
realizzare una decisione, serbarsi fedele a un pensiero, tener
saldamente una donna, punire e abbattere un temerario; un uomo che
ha la sua collera e la sua spada, e al quale di buon grado si
rimettono e per natura appartengono i deboli, i sofferenti, i
tribolati e altresì gli animali, insomma un uomo che per natura è
"signore" - quando un tale uomo prova pietà, ebbene, "questa"
pietà ha valore! Ma che importanza ha la pietà di coloro che
soffrono! o di coloro che addirittura "predicano" pietà! Esiste
oggi quasi ovunque in Europa una morbosa sensibilità e
suscettibilità al dolore e così pure una ributtante mancanza di
misura nel lamentarsi, un infrollimento che con la religione e un
filosofico guazzabuglio vorrebbe prendere l'aspetto azzimato d'un
qualcosa di superiore esiste un preciso culto della sofferenza.
"L'assenza di virilità" in ciò che in tali ambienti di visionari
viene battezzato come 'compassione' è la prima cosa, a mio parere,
che balza agli occhi. Occorre dare vigorosamente e radicalmente
il bando a questa nuovissima specie del cattivo gusto; e io infine
mi auguro che in opposizione a tutto ciò ci si metta attorno al
cuore e al collo il buon amuleto 'gai saber', 'gaia scienza', per
renderlo chiaro ai Tedeschi.

294. "Il vizio olimpico". - A dispetto di quel filosofo che da
vero inglese cercò di creare una cattiva fama al riso in tutte le
teste pensanti - 'il riso è un grave malanno della natura umana,
che ogni testa pensante dovrà sforzarsi di vincere' (Hobbes) - mi
permetterei perfino di stabilire una gerarchia dei filosofi
secondo la dignità del loro riso - su su, fino a quelli che sono
capaci dell'aureo "riso". E posto che anche gli dèi filosofeggino
- come più di una deduzione mi ha già indotto a credere -, non
dubito che essi sappiano anche ridere in una guisa nuova e
sovrumana - e in barba a tutte le cose serie! Gli dèi amano
motteggiare: pare che nemmeno nelle sacre azioni possano impedirsi
di ridere.

295. Il genio del cuore, quale lo possiede quel grande occulto, il
dio tentatore e l'innato acchiappatore di topi per coloro che sono
sicuri, colui la cui voce sa scendere fin nell'oltretomba di ogni
anima, che non pronuncia parola n‚ rivolge sguardo in cui non sia
riposta un'attenzione e un'increspatura di adescamento, alla cui
maestria si compete il saper apparire - e non così come egli è, ma
come una costrizione "di più" in coloro che sono al suo seguito,
per stringersi sempre più vicini a lui, per seguirlo sempre più
intimamente e radicalmente - il genio del cuore che fa ammutolire
ogni voce troppo sonora e ogni compiacimento di s‚ e insegna a
porsi in ascolto, che leviga le anime scabre e infonde loro un
nuovo desiderio da assaporare - quello di starsene taciturne come
uno specchio affinchè in esse si rispecchi il profondo cielo; il
genio del cuore, che insegna alla mano maldestra e precipitosa
l'indugio e una maggior delicatezza nell'afferrare: che sa
divinare il tesoro occulto e obliato, la goccia di bontà e di
dolce spiritualità sotto un ghiaccio torbido e spesso, ed è una
bacchetta magica per ogni granello d'oro che a lungo sia restato
sepolto nel carcere di molto fango e sabbia; il genio del cuore,
dal cui tocco ognuno si diparte più ricco, non graziato e stupito,
non beneficato e oppresso come da un bene estraneo, sibbene più
ricco di s‚, più nuovo che per l'innanzi, dissigillato, alitato e
spiato da un vento australe, forse più insicuro, più delicato, più
fragile, più infranto, ma colmo di speranze che non hanno ancora
un nome, colmo di un volere e di un fluire nuovo, colmo di una
nuova riluttanza e di un nuovo riflusso... ma che dico mai, amici?
Di chi vi sto parlando? Ho dimenticato me stesso al punto da non
rammentarvi neppure il suo nome? A meno che non l'abbiate già
indovinato da voi, chi è questo spirito e questo dio problematico,
che vuole essere "lodato" a questo modo. Come accade infatti a
chiunque, fin dalla più tenera età, sia stato sempre in viaggio e
in contrade straniere, anche a me è capitato d'incontrare, strada
facendo, parecchi spiriti singolari e tutt'altro che innocui, ma
soprattutto quello di cui appunto parlavo, costui sono tornato
sempre a incontrarlo, nientemeno, cioè, che il dio "Dionysos",
quel grande dio ambiguo e tentatore, a cui un tempo, come sapete,
ho offerto in tutta segretezza e venerazione le mie primizie -
l'ultimo, mi sembra, ad avergli offerto un "sacrificio", poiché‚
non ho trovato nessuno che avesse compreso quel che io feci
allora. Nel frattempo imparai per giunta molte cose, troppe cose
sulla filosofia di questo dio, e, come si dice, di bocca in bocca
- io, l'ultimo discepolo e iniziato del dio Dionysos: e non mi
sarà ben concesso, infine, cominciare una buona volta a far
gustare a voi, amici, un poco, quel tanto che m'è permesso, di
questa filosofia? A mezza voce, come è giusto: giacché‚ si tratta
di molte cose misteriose, nuove, prodigiose, inquietanti. già il
fatto che Dionysos è un filosofo e che quindi anche gli dèi
filosofeggino mi pare una novità tutt'altro che scevra d'insidie e
che forse potrebbe suscitare della diffidenza proprio in mezzo a
filosofi - in mezzo a voi, amici, ha già contro di s‚ una minor
diffidenza, se non fosse che tale novità vien troppo tardi e non
al momento giusto: giacché‚ voi oggi non amate credere, come mi è
stato rivelato, in dio e negli dèi. Non potrà darsi, forse, che
nella franchezza del mio discorso io debba spingermi più oltre di
quanto non sia ognor gradito alle severe consuetudini delle vostre
orecchie? Durante i colloqui a due di questo genere non v'è dubbio
che il menzionato iddio andava oltre, notevolmente oltre, e mi
precedeva sempre di molti passi... Anzi, se fosse lecito, gli
attribuirei, secondo il costume umano, molti nomi belli e solenni,
di magnificenza e di virtù, e molto avrei da glorificare il suo
coraggio d'indagatore e di scopritore, la sua ardimentosa lealtà,
veracità e il suo amore per la sapienza. Ma di tutte queste
venerabili, pompose anticaglie un tale iddio non sa che farsene.
'Tientele per te - mi direbbe - e per i tuoi simili e per chiunque
altro ne abbia bisogno! Io non ho alcun motivo per coprire le mie
nudità!'. Lo si indovina: manca forse di pudore questa specie di
divinità e di filosofo? - Così disse una volta: 'In certi momenti
io amo l'uomo,' - e con ciò alludeva ad Arianna che era presente -
'l'uomo è per me un animale gradevole, coraggioso, ingegnoso, che
non ha pari sulla terra, in ogni labirinto si sente ancora a suo
agio. Gli sono benigno: penso spesso a come portarlo ancora
innanzi e renderlo più forte, più malvagio e più profondo di
quanto già sia'. 'Più forte, più malvagio e più profondo?' chiesi
spaventato. 'Sì - disse lui ancora una volta - più forte, più
malvagio e più profondo, e anche più bello' - e sorrise il dio-
tentatore del suo sorriso alcionio, come se avesse appunto detto
una incantevole gentilezza. E' ora chiaro al tempo stesso che
questa divinità manca non soltanto di pudore -; ed esistono in
genere buone ragioni per supporre che in alcune cose gli dèi tutti
potrebbero venire a prender lezione da noi uomini. Noi uomini
siamo più umani...

296. Ahimè, che cosa siete mai voi, miei pensieri scritti e
dipinti! Or non è molto eravate ancora così versicolori, giovani e
maliziosi, così colmi di spine e di droghe segrete, che mi
facevate starnutire e ridere - e ora? Avete già messo a nudo la
vostra novità, e alcuni di voi sono pronti, lo temo, a divenire
tante verità: hanno già un'aria così immortale, così onesta da
spezzare il cuore, così noiosa! Ed è mai stato diversamente? Che
cosa, infatti, scriviamo e dipingiamo noi, mandarini dal pennello
cinese, eternizzatori delle cose che si "lasciano" scrivere, che
cosa soltanto siamo capaci di dipingere? Ahimè, sempre unicamente
quel che appunto è destinato ad appassire e comincia a perdere il
suo profumo! Ahimè, sempre tempeste dileguanti e affievolite e
tardi sentimenti ingialliti! Ahimè, sempre soltanto uccelli che
presero stanchi il volo e fuggirono via, e che ora si lasciano
acchiappare dalla mano - dalla "nostra" mano! Noi eternizziamo
quel che non può più vivere a lungo e volare, soltanto cose
stanche e marcescenti! Ed è soltanto per il vostro "pomeriggio", o
miei pensieri scritti e dipinti, che io possiedo colori, forse
molti colori, molte variopinte dolcezze e cinquanta gialli e
marroni e verdi e rossi: - ma questo non basta a far indovinare
quale aspetto avevate nel vostro mattino, voi improvvise faville e
prodigi della mia solitudine, voi, miei vecchi, amati - "malvagi"
pensieri!