Polizia Globale. Guerra e conflitti dopo l'11 settembre

Alessandro Dal Lago


Polizia Globale - Alessandro Dal Lago

pagine 134

10,00 euro

2003

Ombre Corte, Verona


Dall’inizio degli anni Novanta conviviamo con le guerre. Guerre "per ristabilire l’ordine", "umanitarie", "di pacificazione", "contro il terrorismo" e infine, con l’occupazione dell’Iraq, di pura e semplice conquista. Dopo l’implosione dell’Urss, la guerra è emersa come il normale strumento non già di soluzione dei conflitti e di "legalità" (come vorrebbe un’opinione diffusa e "buonista") ma di funzionamento del capitalismo globalizzato e di mantenimento dell’egemonia (del primo mondo e in particolare degli Usa). In poco più di dieci anni, l’Europa, persa l’illusione di condizionare lo strapotere degli Usa, è divenuta l’ancella di un amico americano sempre più aggressivo e imperiale.
Questo volume ripercorre alcune tappe di questi sviluppi (Kosovo, Afghanistan, Iraq) e analizza le grandi trasformazioni strategiche che hanno permesso l’affermazione di un potere militare senza precedenti e, soprattutto, senza concorrenti. Un potere che, dopo l’11 settembre, può essere declinato come "polizia globale", in quanto non si limita a decapitare qualsiasi regime sia d’impaccio nel controllo delle risorse strategiche, ma si impegna a eliminare le minacce, reali o potenziali, sociali o virtuali, all’ordine globale. E' in questo quadro che episodi come la repressione di Genova nel luglio 2001 devono essere inquadrati. In breve, questo volume disegna realisticamente lo scenario in cui qualsiasi movimento di opposizione al capitalismo globale e per la pace si troverà a operare.

Indice

Avvertenza
Introduzione

1. Una nuova arte della guerra
- Vecchie e nuove guerre
- Rivoluzioni culturali e militari
- Le conseguenze per gli altri
- Polizia globale e nuove funzioni dei militari

2. Netwar (Genova 2001)
- Ricordare Genova
- La sospensione dei diritti negli spazi globali
- L'amalgama di funzioni civili e militari

3. Guerra permanente (Afghanistan 2001)

4. L'impero diviso?
- La strategia di Bush
- Contraccolpi
- Il continente che non c'è

Riferimenti bibliografici


Recensione

Globalizzazione in divisa

Guido Caldiron

Liberazione, 1 Luglio 2003

Dalla prima guerra del Golfo alle giornate genovesi del luglio 2001, dalla legislazione speciale post-11 settembre all'ideologia della "guerra permanente". Il quadro che Alessandro Dal Lago delinea nel suo Polizia globale, appena pubblicato dall'editore veronese Ombre Corte, (pp. 134, euro 10,00), mette insieme i diversi elementi di quello che è in realtà un solo orizzonte, vale a dire ciò che si potrebbe definire come la dimensione armata dei processi di globalizzazione. Un orizzonte nel quale emergono certamente fratture e contraddizioni, si pensi a quella enorme che ha preso forma tra Europa e Stati Uniti in occasione dell'attacco all'Iraq, ma del quale non è certo prevedibile annunciare la messa in discussione, per non parlare di una autentica, possibile, crisi. Perché, in ogni caso, da queste fratture riemerge costantemente il ruolo di primo piano che svolgono gli Usa, e in particolare l'attuale amministrazione di Washington, nel definire una nuova attitudine aggressiva che trova nella minaccia della guerra una delle sue principali caratteristiche. In questo senso, spiega Dal Lago, «con "polizia globale" intendo la capacità americana di intervenire in qualsiasi situazione in cui gli equilibri strategici locali favorevoli agli Usa (politici, ma anche economici ed energetici) siano minacciati o sovvertiti. Una capacità che non prevede esclusivamente l'intervento militare, ma lo presuppone costitutivamente».
All'interno dei processi di globalizzazione mondiale si è infatti messo in moto un meccanismo, quello che Michael Hardt ha definito come "golpe nell'Impero", o meglio, ha assunto nuova visibilità un dato tradizionale della politica di quel paese, che assegna agli Stati Uniti un ruolo da gendarme del pianeta, concentrato più che mai a tutelare e difendere con ogni mezzo i propri interessi. Una caratteristica che, secondo Dal Lago, sarebbe divenuta in particolare visibile nel 1991, in occasione della prima guerra del Golfo. All'epoca, spiega il sociologo dell'università di Genova, «mentre gli europei sognavano una sorta di stato mondiale occidentale, i think tank americani elaboravano le implicazioni strategiche della vittoria nel Golfo: ridimensionamento della Nato, accerchiamento della Russia e sorveglianza della Cina, ristrutturazione di tutta l'area medio-orientale per controllare le risorse petrolifere, resa dei conti con Iraq, Siria e Iran, sostegno senza eccezioni a Israele. Gli americani pensavano sì all'ordine mondiale, ma americano. Dodici anni dopo, durante i preparativi per la "decapitazione" di Saddam, i media europei hanno scoperto che i relativi piani risalivano all'epoca della guerra del 1991 ed erano stati preparati proprio da quelli che sarebbero diventati gli uomini di Bush Jr: Paul Wolfowitz, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell, Richard Perle ecc.». «Il fatto è - conclude Dal Lago - che ben pochi in Europa si erano presi la briga di analizzare i documenti degli strateghi americani e di studiare la trasformazione del loro apparato militare. Soprattutto, avevano dimenticato quanto sia radicata nella cultura politica americana la dottrina del ricorso alla guerra. Gli Usa si considerano (e sono) virtualmente in guerra con chiunque per i propri interessi dal momento in cui si concluse la conquista del continente americano. E' da più di un secolo, dalla guerra contro la Spagna, che gli Usa si battono per l'egemonia mondiale, con l'eccezione (relativa) dei vent'anni tra la prima e la seconda guerra mondiale».
Ma questa caratteristica della politica statunitense diviene oggi l'elemento di maggiore visibilità e pericolo di una trasformazione complessiva conosciuta in questi anni dalla stessa definizione di "guerra" e "conflitto". Gli Usa assumono in realtà un ruolo di primo in uno scenario globale che fa della soluzione militare delle controversie tra paesi una delle proprie linee di tendenza, solo che i conflitti sono posizionati altrimenti rispetto al passato, nella scala dei valori e della prassi delle società occidentali. Ricorrendo a una formula nota si potrebbe spiegare questo passaggio con la progressiva "militarizzazione" dello spazio un tempo definito dell'ordine pubblico interno a ciascun paese e nella contemporanea modifica degli interventi armati verso altre nazioni da atti di guerra in atti di "polizia internazionale". E' per questa via che le giornate genovesi del luglio del 2001 e le conseguenze, sul piano della repressione e dei diritti civili, degli attacchi terroristici dell'11 settembre, concorrono ad illustrare il medesimo clima internazionale. «Mai come in questa fase - scrive infatti l'autore di Polizia globale - la "libertà" dell'Occidente è stata considerata il bene simbolico supremo da difendere contro una folla di nemici dal contorno indefinibile, o meglio definibile in termini più che altro culturali (il terrorista, l'arabo, il fondamentalista, lo straniero, ma anche l'ecologista estremo, l'hacker e, al limite, il nemico della globalizzazione) (...) Ed è esattamente militare la cultura della sicurezza che oggi prevale in Occidente, una cultura a cui l'11 settembre ha conferito dignità strategica ufficiale, ma che a ben vedere si è affermata da almeno un decennio».