Al di là del bene e del male

Friedrich Nietzsche

CAPITOLO QUINTO.
PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE.

186. Il sentimento morale è oggi in Europa tanto sottile, tardo,
multiforme, eccitabile, raffinato, quanto la relativa 'scienza
della morale' è ancora giovane, esordiente, goffa e
grossolanamente maldestra - una antitesi attraente, che talora
diventa essa stessa manifesta incarnandosi nella persona di un
moralista. già il termine 'scienza della morale', per quanto
riguarda quel che viene designato in tal modo, è fin troppo
borioso e contrario al "buon" gusto: il quale di solito preferisce
sempre parole modeste; si dovrebbe confessare a se stessi, con la
massima severità, "che cosa", a questo proposito, ci sarà
necessario per molto tempo ancora, e "che cosa" per il momento ha
una sua esclusiva legittimità: vale a dire la raccolta del
materiale, la formulazione e organizzazione concettuale di un
regno sterminato di delicati sentimenti e differenziazioni di
valore che vivono, si sviluppano, generano e periscono, - senza
escludere, forse, i tentativi di rendere evidenti le ritornanti e
più frequenti configurazioni di questa vivente cristallizzazione -
quale preparazione di una "tipologia" della morale: fino a oggi
non si è stati così modesti. Tutti quanti i filosofi con una
rigida gravità pretesero da se stessi qualcosa di molto più
elevato, di più presuntuoso e solenne, non appena si occuparono
della morale come scienza: essi volevano la "fondazione" della
morale - e ogni filosofo ha creduto fino a oggi di aver fondato la
morale; ma la morale stessa valeva come 'data'. Quanto era lontano
dalla loro goffa alterigia il compito, apparentemente
insignificante e abbandonato nella polvere e nella muffa, di una
descrizione, bench‚ per un compito siffatto difficilmente
avrebbero potuto essere abbastanza affinati le mani e i sensi più
sottili! Appunto i filosofi della morale avevano una conoscenza
soltanto grossolana dei fatti morali, nella forma di un compendio
arbitrario o di una abbreviazione casuale, o qualcosa come
moralità del loro ambiente, del loro ceto, della loro Chiesa,
della loro epoca, del clima e del paese loro - appunto Perchè essi
erano male istruiti e anche poco avidi di notizie sui popoli,
sulle epoche, sulle trascorse età, non si trovarono mai faccia a
faccia coi veri problemi della morale che emergono tutti soltanto
da un confronto di "molte" morali. In ogni 'scienza della morale'
esistita fino a oggi è sempre mancato, per quanto possa riuscire
strano, il problema stesso della morale: è mancato il sospetto che
ci potesse essere su questo punto qualcosa di problematico. Ciò
che i filosofi chiamavano 'fondamento della morale' e ciò che
esigevano da se stessi, considerato nella sua giusta luce, era
soltanto una forma erudita della loro "tranquilla" credenza nella
morale dominante, un nuovo mezzo della sua "espressione", quindi
uno stato di fatto esistente all'interno di una determinata
moralità, anzi, in ultima analisi, addirittura una specie di
negazione che questa morale "potesse" essere concepita come
problema - e in ogni caso l'opposto di una verifica, di
un'analisi, di una messa in questione, di una vivisezione,
appunto, di codesta credenza. Si faccia caso per esempio
all'innocenza quasi venerabile con cui anche uno Schopenhauer pone
a se stesso il suo compito, e si traggano le proprie conclusioni
sulla scientificità di una 'scienza' i cui massimi maestri
discorrono ancora come i bambini e le vecchie donnicciole: - 'Il
principio' egli dice (p. 136 [18] dei "Problemi fondamentali
dell'etica") 'la tesi fondamentale sul cui contenuto tutti i
teorici dell'etica sono "propriamente" d'accordo è: "neminem
loede, immo omnes, quantum potes, juva" - è "propriamente" questa
la proposizione, a cui tutti i maestri dell'etica si sforzano di
dare un fondamento... il fondamento effettivo dell'etica che da
millenni si va cercando come la pietra filosofale'. - La
difficoltà di fondare la citata proposizione è indubbiamente
grande - è noto che non ci sono riusciti neppure gli
schopenhaueriani; e chi ha avuto l'occasione di sentire in
profondità, quanto assurda, falsa e sentimentale sia questa
proposizione, in un mondo la cui essenza è volontà di potenza -,
sarà bene si richiami alla memoria che Schopenhauer, sebbene
pessimista, in verità suonava il flauto... Ogni giorno, dopo il
pranzo: si consultino al riguardo le sue biografie. E sia detto di
passata: un pessimista, un negatore di Dio e del mondo, che si
"arresta" di fronte alla morale - uno che afferma la morale e
suona il flauto, che afferma la morale del "loede neminem" -
domando, è poi veramente un pessimista?

187. Anche prescindendo dal valore di affermazioni come 'esiste in
noi un imperativo categorico', si può sempre domandare ancora una
volta: che cosa asserisce siffatta affermazione riguardo a colui
che la fa? Vi sono morali che devono giustificare il loro autore
di fronte ad altri; altre morali devono acquietarlo e metterlo in
un felice accordo con se stesso; con altre morali l'autore vuole
crocifiggere e umiliare se stesso; con altre vuole fare la sua
vendetta, con altre nascondersi, con altre trasfigurarsi e andare
ancora oltre fino a porre se stesso in alto e distante; ora una
morale serve al suo autore per dimenticare, ora, invece, per far
dimenticare se stesso o qualcosa di se stesso; taluni moralisti
vorrebbero esercitare in questo modo sull'umanità la loro potenza
e l'estro creativo; molti altri, tra cui forse proprio lo stesso
Kant, dànno a intendere, con la loro morale: 'Quel che v'è in me
di rispettabile sta nel fatto che io so obbedire e per voi non
"deve" essere diverso da come è per me!'. Insomma, le morali non
sono nient'altro che un "linguaggio mimico delle passioni".

188. Ogni morale, in antitesi com'è al "laisser aller",
rappresenta una buona dose di tirannide contro la 'natura' e anche
contro la 'ragione': ciò però non è ancora un'obiezione contro di
essa, giacché‚ si dovrebbe pur sempre, sulla base di una qualsiasi
morale, decretare che non è permessa alcuna specie di tirannide e
d'irrazionalità. L'elemento sostanziale e inestimabile di ogni
morale sta nel fatto che essa è una lunga costrizione: per
comprendere lo stoicismo o Port-Royal o il puritanesimo, si
richiami alla mente la costrizione grazie alla quale ogni
linguaggio ha raggiunto forza e libertà - la costrizione del
metro, la tirannide della rima e del ritmo. A quante tribolazioni
non si sono sottoposti, in ogni popolo, i poeti e gli oratori!
Senza eccettuare alcuni prosatori di oggi, nel cui orecchio dimora
una coscienza spietata 'per amore di una follia', come dicono i
babbuassi utilitaristi, che con ciò arrivano al punto di ritenersi
intelligenti -, 'in ossequio a leggi arbitrarie', come dicono gli
anarchici (19), che con ciò si illudono di essere 'liberi', liberi
spiriti. E' tuttavia curioso il fatto che tutto quanto esiste o è
esistito sulla terra di libero, di sottile, di ardimentoso, di
danzante e di magistralmente sicuro, sia nel pensiero stesso che
nel governare o nel discorrere e persuadere, nelle arti come nei
costumi etici, si è sviluppato in virtù della 'tirannide di tali
leggi arbitrarie'; e, sia detto con tutta serietà, è molto
probabile che proprio questo sia 'natura' e 'naturale', e "non
già" quel "laisser aller"! Ogni artista sa quanto sia distante dal
sentimento del lasciarsi andare il suo stato 'più naturale', la
libertà, cioè, con cui egli ordina, stabilisce, dispone, dà forma,
negli attimi dell''ispirazione' - e quanto rigorosamente e
sottilmente, proprio in questo momento, egli obbedisca a mille
molteplici leggi, le quali si burlano di ogni formulazione per
concetti proprio sulla base della loro durezza e determinatezza
(anche il concetto più stabile ha qualcosa di evanescente, di
multiforme e di polivalente di fronte a esse). L'essenziale 'in
cielo e in terra' è, a quanto sembra, per dirlo ancora una volta,
che si "ubbidisca" a lungo e in "una sola" direzione: ne risulta e
ne è risultato, a lungo andare, sempre qualcosa per cui vale la
pena di vivere sulla terra, per esempio virtù, arte, musica,
danza, ragione, spiritualità, qualche cosa di trasfigurante, di
raffinato, di delirante e di divino. Il lungo asservimento dello
spirito, la sospettosa costrizione nella comunicabilità dei
pensieri, la disciplina cui si sottoponeva il pensatore nel
meditare all'interno di una regola ecclesiastica o cortigiana o
sulla base di certi presupposti aristotelici, la lunga volontà
dello spirito di interpretare ogni avvenimento secondo uno schema
cristiano e di riscoprire, giustificandolo, in ogni fortuita
contingenza ancora una volta il Dio cristiano, - tutto quanto v'è
in ciò di violento, di arbitrario, di aspro, di orribile e
d'irragionevole è risultato essere il mezzo attraverso il quale fu
istillata nello spirito europeo la sua forza, la sua spregiudicata
curiosità e raffinata mobilità: pure ammettendo che in tal modo
dovette essere conculcata, soffocata e corrotta una parte
insostituibile della sua energia e del suo spirito (giacché‚ anche
in questo caso, come sempre, 'la natura' si mostra quale essa è,
in tutta la sua prodiga e "incurante" grandiosità, nobile
grandiosità, anche se muove a sdegno). Il fatto che per millenni i
pensatori europei meditarono soltanto di dimostrare qualcosa -
mentre oggi, viceversa, suscita i nostri sospetti ogni pensatore
che 'voglia dimostrare qualcosa' - il fatto che per costoro appare
già sempre assodato quel che invece "doveva" scaturire quale
risultato della loro più severa riflessione, a un dipresso come
accadeva un tempo nella astrologia asiatica, o come accade ancor
oggi nell'innocente interpretazione cristiano-morale dei più
vicini avvenimenti personali 'a lode di Dio' e 'per la salvezza
dell'anima' - questa tirannide, questo arbitrio, questa severa e
grandiosa stoltezza hanno "educato" lo spirito; a quanto sembra la
schiavitù, tanto per l'intelletto più grossolano quanto per quello
più sottile, è il mezzo indispensabile anche della disciplina e
dell'addestramento spirituale. Ogni morale può essere riguardata
in questo senso: la 'natura' in essa è ciò che insegna a odiare il
"laisser aller", l'eccessiva libertà, e radica l'esigenza di
limitati orizzonti, di compiti immediati - che insegna "la
riduzione della prospettiva", e quindi, in un certo senso, la
stupidità, come una condizione di vita e di crescita. 'Tu devi
obbedire, a chicchessia, e per lungo tempo: altrimenti andrai in
rovina e perderai l'ultimo rispetto per te stesso'- mi sembra che
questo sia l'imperativo morale della natura, il quale
indubbiamente non è 'categorico' come pretendeva il vecchio Kant
(di qui l''altrimenti'), n‚ è diretto al singolo (che importa a
essa il singolo!), bensì ai popoli, alle razze, alle epoche, alle
classi, e soprattutto a tutta quanta la bestia 'uomo', agli
uomini. -

189. Le razze industriose provano una grave molestia nel
sopportare l'ozio: fu un colpo maestro dell'istinto "inglese"
santificare la domenica e renderla noiosa a tal punto che nel
cittadino britannico nasce a sua insaputa la voglia di tornare ai
suoi settimanali giorni lavorativi - in quanto è una specie di
"digiuno" saggiamente escogitato e saggiamente interpolato, di cui
si possono trovare anche nel mondo antico abbondanti esempi
(quantunque, come è logico nei popoli meridionali, non proprio in
riferimento al lavoro). Occorre che esistano digiuni di diversa
specie: e ovunque dominano possenti istinti e consuetudini, i
legislatori devono provvedere a che siano introdotti dei giorni
intercalari, in cui tali istinti vengono messi alla catena e
imparano ancora una volta a soffrir la fame. Considerando la cosa
da un superiore punto di vista, intere stirpi ed epoche, allorch‚
risultano contagiate da un qualsivoglia fanatismo morale, hanno
l'aspetto di questi intermezzi di costrizione e digiuno, durante i
quali un istinto impara a umiliarsi e sottomettersi, ma anche a
"purificarsi" e ad "acuirsi": anche alcune sètte filosofiche (per
esempio la Stoa nel cuore della cultura ellenistica e della sua
atmosfera, fattasi lasciva e sovraccarica di profumi afrodisiaci)
consentono una interpretazione di questo genere. - Con ciò è dato
anche un accenno, per spiegare il paradosso che proprio nel
periodo più cristiano dell'Europa, e soprattutto sotto la
pressione dei giudizi cristiani di valore, l'istinto sessuale si
sia sublimato sino a divenire amore ("amour-passion") (20).

190. V'è qualcosa della morale platonica, che non appartiene
propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia,
si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il
socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico.
'Nessuno vuol fare del male a se stesso, perciò ogni azione
cattiva è involontaria. Il malvagio, infatti, cagiona del male a
se stesso: non 1o farebbe se sapesse che il male è male.
Conseguentemente il malvagio è cattivo soltanto per un suo errore:
se lo si libera da questo errore, lo si rende necessariamente
buono'. Questo tipo di conclusione ha odore di "plebaglia", la
quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le
conseguenze dolorose e giudica propriamente in questo modo: 'è da
"sciocchi" agire male'; mentre accetta senz'altro l'identità di
'buono' con 'utile e gradevole'. Si può supporre senz'altro che
ogni utilitarismo della morale abbia la stessa origine e fidarsi
del proprio fiuto: di rado si cadrà in errore. - Platone non ha
lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo
maestro in modo da trovarvi dentro qualcosa di raffinato e di
aristocratico, soprattutto se stesso; era il più ardimentoso di
tutti gli interpreti, che aveva preso dalla strada tutto Socrate
solo come il motivo in voga di una canzone popolare, per variarlo
all'infinito, fino all'impossibile: cioè in tutte le sue proprie
maschere e multiformità. Per dirla scherzosamente e alla maniera
di Omero: che altro mai è il Socrate platonico se non
'Davanti Platone, dietro Platone e in mezzo la Chimera' (21).

191. L'antico problema teologico della 'fede' e del 'sapere' -
oppure, in maniera più chiara, dell'istinto e della ragione - la
questione, quindi, se riguardo alla valutazione delle cose meriti
maggiore autorità l'istinto della ragionevolezza, la quale vuole
che si valuti e si operi secondo dei motivi, secondo un 'Perchè?',
quindi secondo l'opportunità e l'utilità, continua sempre a essere
quel vecchio problema morale quale si presentò per la prima volta
nella persona di Socrate e che già molto prima del cristianesimo
ha prodotto una scissione negli spiriti. Effettivamente lo stesso
Socrate si era posto, grazie al gusto del suo talento - il gusto
di un dialettico superiore - dalla parte della ragione; e in
verità che altro ha fatto durante tutta la sua vita se non
prendersi giuoco della goffa inettitudine dei suoi nobili
Ateniesi, i quali erano uomini d'istinto come tutti i nobili e non
erano mai sufficientemente in grado di dar ragione dei motivi del
loro operare? In definitiva, però, silenziosamente e in segreto,
egli rideva anche di se stesso: dinanzi alla sua più sottile
coscienza, interrogandosi intimamente, trovava in s‚ la stessa
difficoltà e la stessa inettitudine. Ma a che scopo - diceva a se
stesso - liberarsi perciò dagli istinti! Occorre aiutare questi,
nonch‚ la ragione, ad affermare i loro diritti - occorre seguire
gli istinti, e tuttavia persuadere la ragione a dar loro man forte
con buoni motivi. Fu questa la caratteristica "doppiezza" di quel
grande misterioso ironista; portò la sua coscienza al punto di
tranquillizzarsi raggirando in certo modo se stessa: in definitiva
egli aveva penetrato a fondo l'irrazionalità insita nel giudizio
morale. - Platone, più ingenuo in cose di questo genere e senza la
scaltrezza del plebeo, impiegando tutta la sua energia - la più
grande energia che sia mai stata fino a oggi prodigata da un
filosofo! - volle dimostrare a se stesso che ragione e istinto
tendono, di per se stessi, ad "una sola" meta, al bene, a 'Dio'; e
da Platone in poi tutti i teologi e i filosofi si sono messi sulla
stessa strada - vale a dire, nelle questioni della morale ha fino
a oggi prevalso l'istinto, o 'la fede', come dicono i cristiani,
oppure, come dico io, 'l'armento'. Si dovrebbe eccettuare
Descartes, il padre del razionalismo (e quindi nonno della
rivoluzione), il quale riconosceva soltanto l'autorità della
ragione: ma la ragione è soltanto uno strumento, e Descartes era
superficiale.

192. Chi ha seguìto la storia di una singola scienza troverà nel
suo sviluppo un filo conduttore per intendere i più antichi e i
più comuni procedimenti di ogni 'sapere e conoscere': sia nel
primo che nel secondo caso si sviluppano innanzitutto le ipotesi
avventate, le immaginose elaborazioni, la buona sciocca volontà di
'credere', il difetto di diffidenza e pazienza. Troppo tardi i
nostri sensi, e mai pienamente, imparano a essere sottili, fedeli,
accorti organi del conoscere. E' più comodo per i nostri occhi
ricreare, in una data occasione, un'immagine già molte volte
prodotta, anzich‚ ritenere in s‚ quel che v'è di nuovo e di
diverso in una impressione: quest'ultima cosa esige maggior forza,
maggior 'moralità'. - Udire qualcosa di nuovo è penoso e difficile
all'orecchio: non si ascolta di buon grado musica nuova.
Involontariamente, quando ascoltiamo un'altra lingua, tentiamo di
dare ai suoni uditi forma di parole che risuonino più familiari e
più consuete al nostro orecchio: così, per esempio, il tedesco
formò una volta dalla parola "arcubalista", che aveva udito, il
termine 'Armbrust'. Il nuovo incontra l'ostilità e l'avversione
anche dei nostri sensi; e fin nei 'più semplici' processi
sensibili dominano in generale affezioni come paura, amore, odio,
comprese le affezioni passive dell'indolenza. - Come oggi è ben
raro che un lettore legga tutte le singole parole (o addirittura
le sillabe) di una pagina - di venti parole ne estrae circa cinque
a caso e 'indovina' il senso presumibilmente attribuibile a queste
cinque parole - così è altrettanto raro che si veda esattamente e
completamente un albero, nelle sue foglie, rami, colore, figura;
ci riesce assai più facile abbozzare con la fantasia un tipo
approssimativo di albero. Anche nel bel mezzo delle più strane
esperienze interiori continuiamo ad agire allo stesso modo:
plasmiamo immaginosamente la maggior parte di quella esperienza e
difficilmente possiamo essere costretti a "non" assistere come
'inventori' a un qualsiasi evento. Tutto ciò significa che
fondamentalmente, fin da tempo immemorabile noi siamo "abituati
alla menzogna". Oppure, per esprimerci più virtuosamente e più
ipocritamente, insomma in maniera più gradevole: si è molto più
artisti di quanto non si immagini. - Spesse volte in una vivace
conversazione vedo il volto della persona, con cui parlo, secondo
il pensiero che essa esprime e che io credo di aver evocato in
lei, in maniera così evidente e con tale finezza di contorni, che
questo grado di evidenza prevarica di gran lunga "l'energia" della
mia facoltà visiva - la delicatezza del giuoco muscolare e della
espressività dello sguardo "deve" essere dunque immaginosamente
elaborata da me. Con tutta probabilità questa persona aveva un
tutt'altro viso o addirittura nessuna espressione.

193. "Quidquid luce fuit, tenebris agit": ma anche viceversa. Quel
che noi viviamo nel sogno, ammesso che facciamo spesso questa
esperienza, appartiene in ultima istanza all'economia complessiva
della nostra anima, come qualsiasi altra esperienza 'realmente'
vissuta: in virtù del nostro sogno noi siamo più ricchi o più
poveri, abbiamo un bisogno di più o di meno e infine, nella
intensa chiarità del giorno, e anche negli attimi più sereni del
nostro spirito quando è desto, cadiamo un po' in balìa delle
abitudini dei nostri sogni. Posto che qualcuno sogni spesso di
volare e finalmente, non appena si mette a sognare, diventi
cosciente della sua forza e della sua arte nel volo come di una
prerogativa sua propria e di una sua particolarissima invidiabile
fortuna: supposto che un tale individuo creda di poter effettuare
con un leggerissimo impulso ogni genere di curve e di angoli e
conosca la sensazione di una certa divina levità, un 'innalzarsi'
senza tensione e senza sforzo e un 'abbassarsi' senza cedimento e
avvilimento senza "gravità"! - come non dovrebbe un uomo capace
nel sogno di tali esperienze e abitudini trovare infine intonata a
un diverso colore e diversamente definita, anche nel suo giorno di
veglia, la parola 'felicità'! Come non dovrebbe esigere una
felicità "diversa"? 'L'elevazione dello spirito' - come la
descrivono i poeti - deve sembrargli, in confronto a quel
'volare', già qualcosa di troppo terrestre, di troppo muscolare e
violento, qualcosa di troppo 'pesante'.

194. La diversità degli uomini è evidente non soltanto nella
diversità delle loro tavole di valori, nel fatto, quindi, che essi
fanno oggetto delle loro aspirazioni beni diversi e sono discordi
tra loro anche per quanto riguarda il maggiore o il minor grado di
valore, il posto gerarchico occupato dai beni comunemente
riconosciuti - tale diversità è ancor più evidente in ciò che
rappresenta per essi l'effettivo "avere" e "possedere" un bene.
Relativamente alla donna, per esempio, per chi è più modesto già
il fatto di disporre del suo corpo e di goderne sessualmente vale
come segno sufficiente e soddisfacente dell'avere, del possedere;
altri invece, nella sua sete più diffidente e più esigente di
possesso, vedrà il 'punto interrogativo', l'aspetto solo apparente
di un tale possesso, e vorrà prove più sottili, soprattutto, per
sapere se la donna non soltanto si dà a lui, ma anche è disposta a
lasciare per lui quel che ha o che vorrebbe avere; soltanto così
essa sarà per lui 'posseduta'. Un terzo, poi, non sarà neppure in
questo modo al termine della sua diffidenza e della sua volontà di
possesso, e domanderà a se stesso se abbandonando ogni cosa per
lui la donna non agisca forse per una rappresentazione fantastica
che si è fatta di lui: egli vorrà soprattutto essere ben
conosciuto nel profondo, anzi nelle sue stesse abissali
profondità, per potere in generale essere amato, e oserà lasciarsi
indovinare. Avvertirà di possedere interamente la donna amata
soltanto quando ella non si ingannerà più su di lui, quando lo
amerà per il suo satanismo e la sua occulta insaziabilità tanto
quanto per la sua bontà, pazienza e spiritualità. C'è chi vorrebbe
possedere un popolo, e tutte le arti di un Cagliostro e di un
Catilina gli vanno bene per un siffatto scopo. Chi invece, con una
sete di possesso più sottile, dice a se stesso 'non si può
ingannare, quando si vuol possedere' -, si sentirà irritato e
impazientito pensando che una sua maschera fa pesare il proprio
potere sull'animo del popolo: 'è necessario allora che io mi
faccia conoscere e soprattutto che io stesso mi conosca!'. Tra
uomini soccorrevoli e benefici si incontra quasi di regola quella
goffa astuzia, che sa soprattutto adattare ai loro fini colui che
deve essere soccorso: come se costui, per esempio, 'meriti' aiuto,
o desideri precisamente il 'loro' aiuto, e come se si dimostri per
tutti i loro aiuti profondamente riconoscente, affezionato,
sottomesso - immaginandosi queste cose, essi dispongono di chi ha
bisogno come di una loro proprietà, essendo essi soltanto per
brama di proprietà gente generalmente disposta a beneficare e a
soccorrere. Si noterà la loro gelosia tutte le volte che qualcuno
taglierà loro la strada prevenendoli nell'aiuto. I genitori fanno
involontariamente del loro figlio qualcosa di simile a loro -
questo per essi è 'educare' - nessuna madre dubita in fondo al suo
cuore di aver generato a se stessa, nel figlio, una sua proprietà,
nessun padre si sentirà di mettere in dubbio il diritto di poter
sottometterlo alle sue idee e alle sue valutazioni. Sì, una volta
i padri ritenevano giusto esercitare a loro talento sui neonati un
potere di vita e di morte (come accadeva tra gli antichi Germani).
E allo stesso modo del padre, ancor oggi il precettore, la casta,
il prete, il sovrano, scorgono in ogni nuovo essere umano una
comoda occasione per un nuovo possesso. Onde segue...

195. Gli Ebrei - un popolo 'nato per la schiavitù', come dice
Tacito (22) e con lui tutta l'antichità, 'il popolo eletto tra i
popoli', come essi stessi dicono e credono - gli Ebrei hanno
realizzato quel prodigio del rovesciamento dei valori, grazie al
quale la vita sulla terra ha acquistato per un paio di millenni
una nuova e pericolosa attrattiva - i loro profeti hanno fuso in
una sola parole come 'ricco', 'empio', 'cattivo', 'violento',
'sensuale' e per la prima volta hanno dato un conio d'obbrobrio
alla parola 'mondo' (23). In questo capovolgimento dei valori, in
cui rientra l'uso della parola 'povero' come sinonimo di 'santo' e
'amico', sta l'importanza del popolo ebraico: è con "esso" che
comincia, "nella morale, la rivolta degli schiavi".

196. Si può "inferire" che esistano vicino al sole innumere voli
corpi oscuri: corpi che noi non vedremo mai. Questa, sia detto tra
noi, è una similitudine; e uno psicologo della morale legge
l'intera scrittura degli astri soltanto come un linguaggio
figurato e simbolico, con cui si possono nascondere molte cose.

197. Si misconosce profondamente l'animale da preda e l'uomo
predatore (per esempio Cesare Borgia), si misconosce la 'natura'
fintantoch‚ si continua a cercare un 'carattere morboso' in fondo
a queste che sono le più sane tra tutte le belve e creature
tropicali, o addirittura un 'inferno' concreato in loro: ed è
questo che fino a oggi hanno fatto quasi tutti i moralisti. Si
direbbe che nei moralisti ci sia un odio per le foreste vergini e
per i tropici! E che "l'uomo tropicale" debba essere screditato a
tutti i costi, sia come malattia e degenerazione umana, sia come
un proprio inferno e una tortura di se stesso? Perchè mai? A
favore forse delle 'zone temperate'? A pro degli uomini moderati?
dei 'morali'? dei mediocri? Questo per il capitolo 'morale come
pusillanimità'

198. Tutte queste morali che si rivolgono all'individuo singolo,
allo scopo - come si dice - della sua 'felicità' che altro sono
se non proposte di comportamento in rapporto al grado di
"pericolosità" secondo il quale l'individuo singolo vive con se
stesso; ricette contro le sue passioni, le sue tendenze buone e
cattive, in quanto queste hanno la volontà di potenza e vorrebbero
signoreggiare; piccole e grandi accortezze e artificiosità cui si
è rappreso l'odore stantio di vecchi rimedi familiari e di una
saggezza da vecchie donnicciole; tutte quante barocche e
irrazionali nella forma - giacché‚ vogliono indirizzarsi a 'tutti'
e generalizzano là dove non è lecito generalizzare -, tutte
assolute nel linguaggio e atteggiantisi ad assolute, tutte condite
non con "un unico" grano di sale, ma appena tollerabili e talora
persino seducenti quando sanno sprigionare un effluvio saturo
d'aromi e pericoloso, quello soprattutto 'del mondo di là': tutto
questo ha poco valore, se lo si misura con l'intelletto, ed è ben
lontano dall'essere 'scienza', tanto meno poi 'sapienza'; è
soltanto, diciamolo pure una seconda e una terza volta,
accortezza, accortezza, accortezza, commista a stupidità,
stupidità, stupidità - sia che si tratti di quell'indifferenza e
statuaria gelidità contro l'estuante follia delle passioni,
consigliata e raccomandata come terapia dagli Stoici; o di quel
non più ridere e non più piangere di Spinoza, della sua tanto
ingenuamente perorata distruzione delle passioni merc‚ l'analisi e
la vivisezione delle medesime; oppure di quella riduzione delle
passioni a una innocua mediocrità al cui livello è lecito vengano
soddisfatte, cioè dell'aristotelismo della morale; ovverossia che
si tratti anche della morale in quanto godimento delle passioni
intenzionalmente assottigliate e spiritualizzate mediante il
simbolismo dell'arte, ad esempio come musica, o come amore verso
Dio e verso gli uomini per amore di Dio - giacché‚ nella religione
le passioni tornano ad avere diritto di cittadinanza,
semprech‚...; o si tratti, infine, sinanche di quel condiscendente
e malizioso abbandono alle passioni, quale hanno insegnato Hafis e
Goethe, di quell'ardimentoso lasciar cadere le briglie, di quella
spirituale-carnale "licentia morum" nel caso eccezionale di vecchi
e saggi tipi originali e di beoni, nei quali tutto ciò 'presenta
ormai un lieve pericolo'. Anche questo per il capitolo 'morale
come pusillanimità'.

199. Stante il fatto che in ogni tempo, da quando è esistita
l'umanità, sono esistiti anche armenti umani (gruppi familiari,
comunità, stirpi, popoli, Stati, Chiese) e c'è stata sempre una
enorme massa di gente che obbedisce, in rapporto al piccolo numero
di coloro che comandano - in considerazione, dunque, della
circostanza che fino a oggi l'ubbidienza è stata esercitata e
coltivata più di ogni altra cosa e più a lungo tra gli uomini, si
può giustamente ammettere che in media, oggi, ne è innata in
ognuno l'esigenza, quasi una specie di "coscienza" formale, la
quale prescrive: 'qualsiasi cosa devi farla incondizionatamente, o
sempre incondizionatamente devi lasciarla', insomma 'tu devi'.
Questa esigenza cerca di saziarsi e di riempire la sua forma con
un contenuto: così, secondo le sue forze e la sua impazienza e
tensione, essa afferra e accetta senza andar tanto per il sottile,
con il suo grossolano appetito, tutto quel che le vien gridato
all'orecchio da chiunque impartisca un comando: genitori,
precettori, leggi, pregiudizi di classe, opinioni della
collettività. - La singolare limitatezza dell'evoluzione umana, i
suoi indugi, le lungaggini, le frequenti retrocessioni ed i giri
tortuosi hanno radice nel fatto che l'istinto gregario
dell'obbedienza viene ereditato meglio di ogni altro, nonch‚ a
spese dell'arte di comandare. Se si immagina il progredire di
questo istinto sino alle sue estreme aberrazioni, ci si renderà
conto, infine, che i depositari del comando e gli autonomi
risultano addirittura assenti; ovvero soffrono interiormente di
una cattiva coscienza e sentono la necessità di costruirsi
anzitutto un'illusione, per poter comandare: come se, cioè,
anch'essi si limitassero ad obbedire. Effettivamente oggi, in
Europa, sussiste questa condizione: io la chiamo l'ipocrisia
morale di chi comanda. Costoro non sanno difendersi dalla loro
cattiva coscienza in nessun altro modo se non atteggiandosi a
esecutori di ordini più antichi o superiori (degli antenati, della
costituzione, del diritto, delle leggi o perfino di Dio), oppure
prendono in prestito sinanche dalla maniera di pensare
dell'armento le loro massime da armento, come ad esempio 'primo
servitore del suo popolo' o 'strumento del benessere collettivo'.
D'altro canto oggi, in Europa, l'uomo si dà l'aria d'essere
l'unica specie umana permessa ed esalta le sue qualità, in virtù
delle quali egli è mansuefatto, socievole e utile al branco, come
le autentiche virtù umane: cioè spirito comunitario, benevolenza,
rispetto, laboriosità, misura, modestia, indulgenza, compassione.
Nei casi, tuttavia, in cui si pensa di non poter fare a meno di un
capo e di un montone-guida, si fanno oggidì tentativi su tentativi
per rimpiazzare chi comandi addizionando insieme uomini assennati
dell'armento: per esempio, tutte le costituzioni basate sul
principio di rappresentanza hanno questa origine. Quale beneficio,
quale riscatto da un'oppressione che sta divenendo intollerabile
sia, a onta di tutto ciò, per questi Europei-bestie-d'armento,
l'apparire di un uomo che comanda in maniera assoluta, ne fornisce
l'ultima grande testimonianza l'effetto suscitato dalla comparsa
di Napoleone - la storia dell'influenza napoleonica è quasi la
storia della più alta sorte arrisa all'intero secolo nei suoi
uomini e nei suoi momenti più preziosi.

200. L'uomo di un'epoca di dissoluzione, sovvertitrice di razze,
il quale incarna come tale l'eredità di una multiforme origine,
cioè istinti e criteri di valore antitetici e spesso non soltanto
antitetici, in lotta tra loro e raramente pacificati - un siffatto
uomo delle tarde civiltà e delle luci velate sarà in media un uomo
piuttosto debole: il suo più profondo desiderio è che abbia fine,
una buona volta, la guerra che lui stesso è; la sua felicità, in
armonia con una medicina e con un modo di pensare acquietanti (ad
esempio epicurei o cristiani), gli apparirà eminentemente come la
felicità del riposo, della normalità, della sazietà, dell'unità
finalmente raggiunta, come un 'sabato dei sabati', per dirla con
il santo retore Agostino, che era lui pure un uomo di questo
genere. Ma se in una tale indole il dissidio e la guerra agiscono
"maggiormente" come uno stimolo e un formicolio - e d'altro canto,
in aggiunta ai suoi istinti possenti e inconciliabili, egli ha
ereditato e coltivato una vera maestria e finezza nel guerreggiare
con se stesso, quindi la capacità di dominarsi e raggirarsi:
sorgono allora quegli esseri magicamente inafferrabili e
impenetrabili, quegli uomini enigmatici, predestinati alla
vittoria e alla seduzione, di cui le più belle espressioni sono
Alcibiade e Cesare (a cui aggiungerei volentieri quel Federico
Secondo Hohenstaufen, che a mio avviso è il "primo" europeo), e
tra gli artisti, forse, Leonardo da Vinci. Essi fanno la loro
apparizione proprio in quelle epoche in cui avanza sul proscenio
il tipo più debole, con il suo desiderio di pace: i due tipi sono
intrinsecamente connessi e scaturiscono da identiche cause.

201. Fintantoch‚ l'utile dominante nelle valutazioni morali è solo
l'utile dell'armento, fintantoch‚ lo sguardo è rivolto unicamente
alla conservazione della collettività, e l'immorale è cercato
precisamente ed esclusivamente in ciò che appare pericoloso per la
sussistenza della comunità, non potrà ancora esistere una 'morale
dell'amor del prossimo'. Anche ammesso sia reperibile, a questo
punto, già un piccolo costante esercizio di rispetto, compassione,
equità, mitezza, reciprocità nel prestarsi aiuto, pur supponendo
che anche in questo stato della società siano già operanti tutti
quegli istinti che più tardi verranno designati col nome onorifico
di 'virtù' e che infine quasi coincidono con il concetto stesso di
'moralità', occorrerà dire che a quel tempo essi non appartengono
ancora in alcun modo al regno delle valutazioni morali - essi sono
ancora "extramorali". Per esempio un atto di pietà, nell'epoca
migliore di Roma, non ha ancora un significato n‚ buono n‚
cattivo, n‚ morale n‚ immorale; e sebbene sia lodato, tuttavia a
questa lode si associa ancora ottimamente una specie di sdegnoso
dispregio, appena tale atto venga messo a confronto con una
qualsiasi altra azione che giovi al progresso del tutto, alla "res
publica". Infine 'l'amore per il prossimo' è sempre qualcosa di
secondario, in parte convenzionale e arbitrariamente apparente nel
rapporto con la "paura del prossimo". Una volta che la compagine
sociale appaia saldamente stabilita nel suo complesso e garantita
contro pericoli esterni, è questa paura del prossimo a creare
ancora nuove prospettive alle valutazioni morali. Certi istinti
vigorosi e pericolosi, come lo spirito d'intrapresa, l'audacia, la
brama di vendetta, la scaltrezza, l'avidità di preda, la sete di
potere - i quali fino a quel momento non soltanto dovettero essere
onorati nell'intendimento di un utile collettivo - ovviamente
sotto nomi diversi da quelli test‚ menzionati ma anche presi
particolarmente a cuore e coltivati su vasta scala (giacché‚ nei
frangenti della comunità si aveva continuamente bisogno di essi
contro i ne mici della medesima), vengono ormai sentiti con
intensità duplicata nella loro pericolosità - ora che mancano per
essi i canali di deflusso e poco per volta, in quanto immorali,
vengono bollati a fuoco e lasciati in balìa della calunnia. -
Risultano allora moralmente onorati gli istinti e le inclinazioni
opposte: l'istinto dell'armento trae poco per volta le sue
conclusioni. Il grado maggiore o minore di pericolo per la
collettività, di pericolo per l'eguaglianza, esistente in
un'opinione, in una condizione di spirito e in una passione, in un
volere, in un'attitudine, in ciò consiste ora la prospettiva
morale: anche a questo proposito, la paura è ancora una volta la
madre della morale. Quando, erompendo prepotentemente, istinti
sovrani e robustissimi trascinano l'individuo di gran lunga al di
sopra e al di là di ciò che rappresenta la media e la meschinità
della coscienza del gregge, perisce allora nella comunità la
coscienza di s‚, la sua fede in se stessa, si spezza, per così
dire, la sua colonna vertebrale: di conseguenza si preferisce
bollare calunniosamente con un marchio d'infamia appunto questi
istinti. Vengono già avvertite come pericolose l'elevata, autonoma
spiritualità, la volontà di far parte per se stessi, la grande
ragione; tutto ciò che innalza l'individuo al di sopra
dell'armento e provoca il timore del prossimo, prende da questo
momento significato di "cattivo"; i princìpi dell'equità, della
modestia, dell'autoinserimento, dell'eguaglianza, la "mediocrità"
delle brame ottengono designazioni e onori morali. Infine, in uno
stato estremamente pacifico, viene a mancare sempre di più
l'occasione e la necessità di educare i propri sentimenti al
rigore e alla durezza; sarà allora che ogni severità, pur nella
giustizia, comincerà a turbare la coscienza; un'aristocraticità e
autoresponsabilità elevata e severa diventa quasi offensiva e
desta diffidenza, 'l'agnello' e ancor più 'la pecora' salgono in
considerazione. C'è un momento nella storia della società in cui
il morboso infrollimento e snervamento sono tali che la società
stessa prende posizione a favore del suo danneggiatore, del
"delinquente", e con tutta serietà e onestà. Punire: questo le
sembra in un certo senso ingiusto - è indubbio che l'idea della
'punizione' e del 'dover punire' la fa soffrire, le incute timore.
'Non basta renderlo "innocuo"? A quale scopo mettersi anche a
castigarlo? Il punire è in se stesso una cosa spaventosa!'. Con
questa domanda la morale dell'armento, la morale della
pusillanimità, trae la sua ultima conseguenza. Posto che si
potesse sopprimere il pericolo in generale, il motivo della paura,
si sarebbe tolto di mezzo, al tempo stesso, anche questa morale:
essa non sarebbe più necessaria, non si considererebbe più
necessaria come tale! - Chi indaga la coscienza dell'europeo di
oggi, dovrà estrarre dalle mille pieghe e dai mille nascondigli
della morale sempre lo stesso imperativo, l'imperativo della
pusillanimità del gregge: 'Noi vogliamo che a un certo momento non
ci sia più "niente di cui aver paura"!'. A un certo momento la
volontà e il cammino per giungervi sono quel che oggi, in Europa,
è chiamato 'progresso'

202. Diciamo subito ancora una volta quel che già abbiamo detto
cento volte: giacché‚ oggi non sono ben disposti gli orecchi a
intendere certe verità, le "nostre" verità! Ci è già abbastanza
noto quanto suoni offensivo annoverare, senza fronzoli e non
metaforicamente, l'uomo in genere tra gli animali; e ci verrà
quasi considerata una "colpa" l'aver costantemente usato, proprio
in riferimento agli uomini delle 'idee moderne', le espressioni
'armento', 'istinti dell'armento' e simili. Che importa! Non
possiamo fare altrimenti: sta proprio in questo, infatti, la
nostra nuova conoscenza. Abbiamo riscontrato che l'Europa ha
raggiunto l'unanimità in tutti i suoi principali giudizi morali,
senza escludere quei paesi in cui domina l'influsso europeo: si
"sa", evidentemente, in Europa, quel che Socrate riteneva di non
sapere e ciò che quel vecchio famoso serpente aveva un tempo
promesso di insegnare - si 'sa' oggi che cos'è bene e male. Deve
allora aver suoni aspri e tutt'altro che gradevoli agli orecchi la
nostra ognor rinnovata insistenza nel dire che è l'istinto
dell'uomo animale d'armento quel che in lui crede di saperne
abbastanza a questo proposito, celebra se stesso con la lode e il
biasimo e chiama se stesso buono: come tale, questo istinto è
arrivato a farsi strada, a predominare e a signoreggiare sugli
altri e guadagna sempre più terreno in armonia a quel crescente
processo di convergenza e di assimilazione fisiologica di cui esso
è un sintomo. "La morale è oggi in Europa una morale d'armento"
dunque, stando a come intendiamo noi le cose - nient'altro che un
solo tipo di morale umana, accanto, avanti, e dopo la quale molte
altre, soprattutto morali "superiori", sono o dovrebbero essere
possibili. Contro una tale 'possibilità', contro un tale
'dovrebbe', questa morale però si difende con tutte le sue forze:
essa si affanna a dire con ostinazione implacabile 'io sono la
morale in s‚ e non v'è altra morale se non questa!' - anzi,
sostenuta da una religione che appagava le più sublimi
concupiscenze delle bestie da mandria, lusingandole, si è giunti
al punto che persino nelle istituzioni politiche e sociali
troviamo una espressione sempre maggiormente evidente di questa
morale: il movimento "democratico" costituisce l'eredità di quello
cristiano. Ma che il suo ritmo sia ancor troppo lento e indolente
per gli impazienti, i malati e i morbosamente smaniosi, lo attesta
il tumulto ognor più furibondo dell'anarchica canea, digrignante i
denti in guisa sempre più manifesta, che va girando per le strade
della cultura europea: in apparente antitesi coi democratici e
cogli ideologi rivoluzionari pacificamente operosi e ancor più coi
melensi filosofastri e zelatori della fratellanza, i quali si
dicono socialisti e vogliono la 'libera società', ma in verità
unanimi con tutti costoro nella radicale e istintiva inimicizia
contro ogni altra forma sociale che non sia quella della mandria
"autonoma" (arrivando persino al rifiuto del concetto di 'padrone'
e 'servo' - "ni dieu ni maŒtre", dice una formola socialista);
unanimi nella tenace opposizione a ogni pretesa particolare, a
ogni particolare diritto e privilegio (la qual cosa, in
definitiva, significa opposizione ad "ogni" diritto: giacché‚ se
tutti sono uguali, nessuno ha più bisogno di 'diritti'); unanimi
nel diffidare della giustizia punitiva (come se essa
rappresentasse una violenza esercitata su chi è più debole, un
torto arrecato alla "necessaria" conseguenza di tutte le società
anteriori); ed egualmente unanimi nella religione della
compassione, nel simpatizzare interiormente con tutto quanto è
sentito, vissuto, sofferto (scendendo in basso fino al livello
della bestia, o innalzandosi a 'Dio' - l'aberrazione di una
'compassione verso Dio' appartiene a un'epoca democratica); tutti
quanti unanimi nel grido e nell'impazienza della compassione,
nell'odio mortale contro il dolore in generale, nella quasi
femminea incapacità di poter restare a guardare, di poter
"lasciare" che si soffra; unanimi nel forzato offuscamento e
infrollimento, alla merc‚ del quale l'Europa sembra minacciata da
un nuovo buddhismo; unanimi nella fede in una morale della pietà
"comunitaria", come se questa fosse la morale in s‚, la vetta
ormai "raggiunta" dagli uomini, l'unica speranza dell'avvenire, il
conforto del presente, il grande riscatto di tutte le colpe del
passato; tutti quanti unanimi nella fede verso la comunità quale
"redentrice", dunque, verso l'armento in 's‚'...

203. Noi, che abbiamo una fede diversa noi, per i quali il
movimento democratico rappresenta non soltanto una forma di
decadenza dell'organizzazione politica, ma anche una forma di
decadenza, cioè d'immeschinimento, dell'uomo, un suo
mediocrizzarsi e invilirsi: dove dobbiamo tendere "noi", con le
nostre speranze? Verso "nuovi filosofi", non c'è altra scelta;
verso spiriti abbastanza forti e originali da poter promuovere
opposti apprezzamenti di valore e tra svalutare, capovolgere
'valori eterni': verso precursori, verso uomini dell'avvenire che
nel presente stringono imperiosamente quel nodo che costringerà la
volontà di millenni a prendere "nuove" strade. Per insegnare
all'uomo che l'avvenire dell'uomo è la sua "volontà", è
subordinato a un volere umano, e per preparare grandi rischi e
tentativi totali di disciplina e d'allevamento, allo scopo di
mettere in tal modo fine a quell'orribile dominio dell'assurdo e
del caso che fino a oggi ha avuto il nome di 'storia' - l'assurdo
del 'maggior numero' è soltanto la sua forma ultima -: per questo
sarà, a un certo momento, necessaria una nuova specie di filosofi
e di reggitori, di fronte ai quali tutti gli spiriti nascosti,
terribili e benigni, esistiti sulla terra, sembreranno immagini
pallide e imbastardite. E' l'immagine di tali condottieri che si
libra dinanzi ai "nostri" occhi: posso dirlo forte a voi, spiriti
liberi? Le circostanze che si dovrebbe in parte creare, in parte
utilizzare, Perchè essi sorgano; le vie e le prove presumibili, in
virtù delle quali un'anima potrebbe crescere sino a un'altezza e a
una forza tali da sentire la "costrizione" verso questi compiti;
una trasvalutazione dei valori, sotto il nuovo torchio e martello
della quale una coscienza verrebbe temprata e un cuore trasmutato
in bronzo, così da poter sopportare il peso di una nuova
responsabilità; e d'altro canto la necessità di tali condottieri,
il tremendo pericolo che essi possano non giungere, o fallire, o
degenerare queste sono le "nostre" vere ambasce e abbuiamenti, lo
sapete voi, voi, spiriti liberi? Questi sono i nostri pesanti,
lontani pensieri e uragani che toccano il cielo della "nostra"
vita. Esistono pochi dolori così penetranti come quello di aver
veduto, divinato, partecipato intimamente al modo con cui un uomo
d'eccezione è uscito dalla sua strada ed è andato tralignando: ma
chi tiene rivolto il suo inconsueto sguardo al comune pericolo che
l'uomo stesso "degeneri", chi, come noi, ha conosciuto la
mostruosa casualità, che sino a oggi ha giocato sull'avvenire
umano - un giuoco in cui n‚ una mano e neppure un 'dito d'Iddio'
si sono mai immischiati! - chi intuisce la sinistra fatalità che
si cela nella dabbenaggine idiota e nella fiduciosa beatitudine
delle 'idee moderne', e ancor più in tutta quanta la morale
cristiano-europea, proverà una stretta al cuore, alla quale non è
dato paragonarne altra - anzi abbraccerà con un "unico" sguardo
tutto quello che, con una favorevole concentrazione e un
incremento di forze e di compiti, "una plasmazione educativa"
potrebbe ancora "ricavare dall'uomo"; con tutto quel che la sua
coscienza sa, si renderà conto che l'uomo non è ancora esaurito
per le sue possibilità più grandi, e che già spesso il tipo 'uomo'
è stato vicino a misteriose decisioni e a nuove strade; - meglio
ancora saprà, per un suo stesso dolorosissimo ricordo, su quali
miserabili cose è accaduto in genere fino a oggi che realtà in
divenire, di primissimo rango, finissero per infrangersi,
sfasciarsi, inabissarsi lentamente e rendersi esse stesse
miserabili. La "degenerazione totale dell'uomo", che nel suo grado
più basso arriva a quel che per i babbuassi socialisti e per le
teste vuote rappresenta l''uomo dell'avvenire' - il loro ideale! -
questa degenerazione e questo immeschinimento dell'uomo in
perfetta bestia d'armento (o, come costoro dicono, in uomo di una
'libera società'), questo animalizzarsi dell'uomo in bestia nana
fornita di eguali diritti ed esigenze è "possibile", non vi è
dubbio! Chi anche una sola volta ha meditato sino in fondo questa
possibilità, conosce un disgusto di più rispetto agli altri
uomini, e forse anche un nuovo "compito"!